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Identità e cambiamento

Identità e cambiamento

Nonostante la vita sia un divenire, noi opponiamo resistenza ad ogni tipo di cambiamento per la paura di uscire dallo stato di confort e a livello più profondo per il timore di perdere la propria identità.

Lunedi, 14/07/2014 - Nonostante che la vita sia un divenire, noi non siamo predisposti al cambiamento. C’è in noi infatti la resistenza al mutamento, la tendenza a mantenere la stabilità anche in presenza di perturbazioni esterne e l’esigenza di ripristinare subito l’ordine precedente. Sappiamo tutti infatti quanto sia difficile cambiare o far cambiare un’abitudine o un comportamento!

Questo modo di agire però non ci deve far sentire in colpa o inadeguati, perché la resistenza al cambiamento fa parte dell’uomo.

Ma se il cambiamento è ciò che di più naturale esiste, perché allora con altrettanta naturalezza ci opponiamo ad esso?

I cambiamenti spaventano, innanzitutto, per la paura di uscire da una zona di comfort, che ci tiene legati a ciò che conosciamo e che ci dà sicurezza, al punto tale che spesso si finisce per accettare anche una situazione poco soddisfacente e così si preferisce vivere male. Si mette in atto un tentativo di sabotaggio nei confronti della nostra mente: la situazione man mano viene accettata passivamente, cercando i lati più vantaggiosi e dimenticando quelli negativi, per cui un lavoro sotto pagato è meglio della disoccupazione, un coniuge non adeguato è meglio della solitudine e così all’infinito, cercando delle giustificazioni che mettano al riparo da quel cambiamento che tanto ci terrorizza.

A livello più profondo la resistenza ed il rifiuto del cambiamento si giustificano anche con la paura di perdere la propria identità.

Etimologicamente il termine “identità” , dal latino idem, che significa medesimo, indica l’insieme dei caratteri che distinguono una persona o una cosa da tutte le altre ed allude ad una coincidenza di elementi e ad un’assoluta uguaglianza. Con il termine di identità perciò ci si riferirebbe all’individuo che rimane il medesimo nella successione dei cambiamenti interni ed esterni che si verificano nel corso del tempo.

Però l’idea di identità centrata sulla somiglianza dell’individuo con se stesso esclude le differenze da sé, che pure sono consistenti. Il sentimento dell’identità infatti non deve reprimere in noi la consapevolezza che esistono possibilità varie e diverse e questo non ci deve spaventare.

La convinzione di un io invariabile, tanto radicata in noi, è smentita dall'esperienza, di conseguenza l’ identità non può essere statica nel corso del tempo, ma é soggetta al cambiamento.

Oggi infatti la maggior parte degli studiosi parla dell’identità in termini dinamici, proprio perché essa non ha un contenuto immutabile e definito in via permanente, ma si costruisce per stadi successivi .

Ogni mutamento richiede una ridefinizione della propria identità ed in particolare una ridefinizione dell’immagine di Sé, attraverso una costruzione, più o meno consapevole, che deriva da una scelta.

Il mutamento dell’immagine di Sé comporta comunque una difficoltà emotiva che può essere più o meno lunga, più o meno intensa o più grave, sconfinando in quella che gli studiosi moderni identificano con la crisi di identità. Diventa la rottura di un equilibrio e solamente quando la novità viene elaborata ed accettata, si ricompone la stabilità .

Ma allora quando pensiamo o diciamo che bisogna “essere se stessi”, alludiamo forse ad un se stesso sempre simile a sé? Probabilmente è quanto vorremmo istintivamente, dalle nostre argomentazioni però dobbiamo dedurre che, poiché l’identità è la risposta ad un processo sempre in cambiamento, è importante riconoscere come se stesso colui che, attraverso tutte le esperienze, non finisce mai di cambiare.

Cambiare perciò non significa perdere l’identità, soltanto essa non deve essere considerata come qualcosa di statico, ma come un qualcosa che, nel suo variare e durare mantiene la “coesione” tra componenti diversi.

Poiché la costruzione dell’identità permette di vivere situazioni che risultano contraddittorie tra di loro, come la continuità ed il cambiamento, la percezione dell’unitarietà è fondamentale, perché impedisce all’individuo di perdersi di fronte alla frammentarietà dell’esperienza e garantisce comunque l’unità del sé di fronte ad ogni tipo di mutamento.

L’unità dell’io però non deriva dalla sua azione di tener insieme frammenti sparsi dell’esistenza, in quanto, se essa fosse costituita di stati separati, di cui un Io dovesse far la sintesi, non ci sarebbe il divenire o meglio ciò che il filosofo Bergson chiama “durata”, cioè “ l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce, formando un tutto dinamico, un flusso continuo, un divenire senza sosta di istanti che si compenetrano mutuamente.



(Estratto da “Vivere il cambiamento” di Noemi Di Gioia, casa editrice ePubblica, 2014, in formato e-book)

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