Il nuovo romanzo di Michela Marzano narra la storia di Alessandra che, venuta a sapere dell'Alzheimer della suocera Annie, decide di ricostruirne la storia. Ritrovando la sua.
Dicono che l’ultimo romanzo della Marzano parli di Alzheimer: non credeteci. Sì, è vero, uno dei personaggi principali, Annie, soffre di questa patologia, ma è solo un pretesto. I libri di Michela Marzano sono sempre costruiti intorno a un pretesto che cattura il lettore, lo mette su un cammino e, quando questi inizia ad abituarsene e a indovinare il proseguimento, ecco che l’autrice lo scaraventa ben oltre, ben altrove, nel vero punto in cui voleva condurlo. Tenetevi forte quindi, perché una volta incontrata la suocera smemorata della protagonista Alessandra, si inizia una discesa a capofitto. Giù, sempre più giù, fino quasi a supporre che un fondo non ci sia.
L’incontro con la malattia di Annie costituisce per Alessandra il corto circuito necessario per potersi guardare dentro, per togliere la cortina pesante che ha fatto calare tra lei e il suo passato, la sua infanzia, i suoi incubi che, imperterriti, le bussano nel sonno prendendo le sembianze di incubi insostenibili.
Anche qui, come in Volevo essere una farfalla, Michela Marzano ci mostra bene come soffocare il dolore sia dannoso e mai risolutivo. Occorre prenderlo per le corna il dolore, soprattutto quando non riusciamo a guardarlo né a nominarlo, occorre tirarlo fuori e confrontarcisi, attraversare le proprie macerie per finalmente affrancarsene e tornare a vivere. Non c’è altra via, né altra soluzione.
Idda è appunto la scintilla che fa prendere fuoco alla cortina, che crea un terremoto interno alla protagonista, la quale ricostruendo la storia di questa donna si accorge di cercare se stessa. In questo caso quindi è un incontro, una storia di vita a causare lo scossone rumorosissimo, ma potrebbe essere anche una melodia improvvisa, un profumo inatteso, un sapore dimenticato… tanto basta per sentire smuoversi le viscere e farsi a pezzetti tutta la corazza costruita in anni di negazione. Può far male, certo, ma è l’unico modo per ricostruirsi e tornare alla vita. Non ci si riesce mai del tutto, manca sempre qualche pezzetto andato a nascondersi chissà dove, ma vale la pena provarci. Ce lo dobbiamo.
Lo stile della Marzano è riconoscibile, pennellate veloci, una scrittura scarna, essenziale, nessuna concessione a inutili preziosismi, quasi a sottolineare l’urgenza di dire, di scoprire, di arrivare a quel punto che si nasconde. Spesso il suo racconto è ellittico, dice ma non mostra tutto, spiega ma non si attarda troppo. Come se fosse impossibile dire la sofferenza, ma anche il suo riscatto. Sta al lettore attraversare con lei la storia di queste due donne e vedere insieme a loro lo svolgersi dei loro giorni, fino a trovare il nodo che strozzava il respiro. E scioglierlo.
Ma, soprattutto, come tutti i suoi romanzi, questo è un libro sull’amore. Tortuoso, nascosto, svelato, “sgrammaticato” come dice in un’espressione felicissima Alessandra del suo amore col compagno Pierre, misterioso e legnoso, assoluto e protettivo, ma sempre amore, quello che salva. E quello che resta: quando il ricordo di ciò che siamo e siamo stati scivola via, una sola frase non si cancella nei malati di memoria: ti amo.
“L’amore resta, pure quando l’oblio ce la mette tutta per cancellarlo, l’amore non sparisce mai. E questo è più che sufficiente per dare coerenza a ciò che, di coerente, non sembra avere molto. Tanto, nella vita, i conti non tornano mai: si balbetta e si va avanti a tentoni, talvolta si frana e non ci si rialza, talvolta si ha la fortuna di poter ricominciare daccapo”. Perché, come dice Milan Kundera in epigrafe, “Di fronte all’inevitabile sconfitta che chiamiamo vita, non ci resta che cercare di comprenderla”.
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