“Una sentenza senza precedenti”. Così è stata definita la decisione dell’Alta Corte di Londra che ha riconosciuto ad una ragazza inglese di 14 anni, morta per una rara forma di cancro, la possibilità di essere ibernata nella speranza di un futuro risveglio:”Ho solo 14 anni e non voglio morire, ma so che dovrò morire” – aveva scritto al giudice, chiedendogli una chance di vivere e d’essere curata anche in un lontano futuro.
Un ulteriore elemento di problematicità era costituito dal contrasto tra i genitori (divorziati) in merito alla richiesta: mentre la madre era favorevole, il padre si era dichiarato contrario, a causa sia dei costi che delle conseguenze della procedura, pur modificando successivamente la sua posizione.
La decisione assunta dal giudice – che ha definito la vicenda “una tragica combinazione di una malattia infantile e di un conflitto familiare” – si è basata sul riconoscimento del preminente interesse della ragazza e del rispetto della sua volontà. La sentenza, indubbiamente destinata a far discutere, rappresenta un esempio delle nuove domande, vere e proprie sfide, che la scienza e la tecnologia pongono al diritto e all’etica. I progressi della biomedicina hanno trasformato, nel corso di pochi decenni, le circostanze e le modalità del morire e, insieme, hanno contribuito a mutare la visione della morte. Lo storico Philippe Ariés, in un celebre studio 'L’uomo e la morte dal medioevo a oggi', ha mostrato come gli atteggiamenti verso le ultime fasi della vita siano progressivamente andati mutando e si sia passati, nei secoli, dall’accettazione della morte, vissuta come un evento naturale, a una negazione della morte, propria della società moderna e contemporanea.
La tecnica sta ormai cancellando la morte naturale nei termini in cui l’aveva vissuta la nostra specie. Viviamo un momento epocale che richiede un esercizio straordinario di ragione e di immaginazione per un carico di decisioni impensabili nel mondo di ieri, governato dalla natura e dalle sue leggi.
La sentenza riflette, quindi, il profondo mutamento culturale che caratterizza società tecnologiche ad alta medicalizzazione – come la nostra – nei confronti dello stadio terminale della vita.
Anche per questo sono largamente prevedibili le reazioni che essa susciterà. La richiesta di ibernazione potrà essere vista sia come espressione estrema di quella visione materialistica che fa coincidere la vita colla mera sopravvivenza biologica, sia come sintomo inquietante di quella cultura individualistica che ci porta a ignorare che una vita priva di quelle relazioni, affetti e appartenenze che hanno nutrito la nostra esistenza non è degna di essere vissuta, sia come manifestazione ingenua di quella fede acritica nella scienza e nella tecnologia che attende da esse le risposte che un tempo provenivano dalla religione e che potrebbe vedere nella resurrezione tecnologica una sorta di moderno surrogato della divina promessa di immortalità. Argomentazioni tutte ragionevoli, fondate e condivisibili ma che lasciano irrisolte talune questioni cruciali.
Ad esempio: come dovremmo giudicare il desiderio di vivere ancora? La non rassegnazione alla morte si configura allo stesso modo per un adolescente e per un anziano? Quale importanza assegnare alle diverse situazioni? Potremmo mettere sullo stesso piano il desiderio di rinascere di chi ha vissuto lungamente, compiendo il suo ciclo naturale e quello di chi si trova alle soglie della vita e, non avendo vissuto, chiede di avere un’altra occasione? Stiamo parlando, lo sappiamo bene, di desideri impossibili, a detta degli scienziati che esprimono le loro fondate riserve sulla tecnica di criogenesi e mettono a ragione in guardia dalle facili illusioni indotte da scenari fantascientifici.
E tuttavia, l’accoglimento della richiesta di ibernazione da parte del giudice, che si è detto colpito dal coraggio con cui la ragazza ha affrontato la malattia, potrebbe considerarsi, sotto un certo aspetto, come il riconoscimento di un irrinunciabile “diritto alla speranza”, un diritto peraltro presente nella letteratura di lingua inglese: in questo caso, la speranza di una cura che si attende e di una vita che resta sognata. Sentenza, dunque, umanissima, ispirata a una profonda pietas , ma soprattutto espressione di un diritto aperto alle ragioni della compassione e della cura..
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