Sabato, 03/02/2018 - Contromafie alla quarta edizione (Roma, 2/4 Febbraio 2018) diventa Contromafie e Corruzione. L’appuntamento tra gli aderenti di Libera con società e Istituzioni da quest’anno aggiunge una parola carica di significati e cambiamenti che si sono verificati negli ultimi anni, e di cui non si può fare più a meno. Mafia e Corruzione si equivalgono quando si lavora sul territorio, come da anni fa Libera, incidendo sulla struttura della società mafiosa e corrotta per ripristinare parole come libertà, solidarietà o giustizia.
Lo ripete con forza Don Luigi Ciotti anima ispiratrice di Libera, durante il suo intervento introduttivo alle tre giornate: “mafia e corruzione continuano a essere un problema di fondo della democrazia. Sono i parassiti delle speranze e dei diritti di tutti. Le mafie e la corruzione sono un male non solo criminale ma culturale, sociale politico economico. Bisogna combattere su questi piani contemporaneamente. La corruzione è una mafia che strozza, ma in guanti bianchi”.
Tanti gli interventi da Caselli, Presidente onorario di Libera, a Bergonzoni, da Virginia Raggi a Nicola Zingaretti a Rosi Bindi presidente della Commissione antimafia.
Ma il nucleo centrale della giornata è stato dedicato alle donne di ‘ndrangheta sopravvissute alla violenza della loro famiglia e del loro luogo d’origine. È stata Enza Rando vice Presidente di Libera a presentare la testimonianza di due donne di ‘ndrangheta, insieme a Cristiana Capotondi che interpreterà la figura di Renata Fonte, assessora alla cultura di Nardò uccisa dalla mafia nel 31 marzo nel 1984.
Rita e Daniela nomi di fantasia e non presenti in sala per motivi di sicurezza, snocciolano parole intense e vissute di chi ha trascorso una vita a conoscere se stessi a cercare di capire i motivi di tanta violenza, e a decidere di lasciare la famiglia di ‘ndrangheta per dare una vita migliore ai figli, o per sfuggire a una mentalità di mafia. Una rinascita civile viene spesso detto: “oggi posso dire di esserci riuscita grazie a me, e a don Ciotti”, dice Rita.
Daniela nel 2010 decide di lasciare la famiglia. La forza gli arriva dai figli: “Io sono una donna ma soprattutto una mamma. Ho maturato questa mia scelta dopo l’uccisione di mio marito per mano della sua stessa famiglia. Dopo quell’omicidio è come se ci fossimo risvegliati. Dopo vari tentativi di uscire da quella famiglia è stato l’incontro casuale con Ciotti a darci l’aiuto concreto e che ci ha accompagnato in tutto. Oggi sopravviviamo perché ci nascondiamo, ma non siamo riconosciute, siamo ancora in fuga”.
È una condizione di solitudine quella di queste donne, che non sono riconosciute dallo Stato, perché non sono né testimoni di giustizia, né collaboratori. Ma un recente protocollo stipulato da vari organi dello stato consente di aiutare le donne di mafia a ricollocarsi e a trovare quell’aiuto che fin ora è mancato.
“Io vengo dalla sostanza di mafia”, dice Daniela, “ho avuto il coraggio di cambiare e spero che altre donne con questo strumento trovino il coraggio di rivolgersi a chi si può prendere cura di loro, per dare un'istruzione ai figli o per andare in un ospedale, per tutti quei diritti fondamentali, insomma, che diano sicurezza. Perché lo ripeto la rieducazione è importante, ma si deve prima partire da se” e aggiunge “noi siamo più forti di loro, questo ci deve convincere, siamo grandi, siamo mamme lo facciamo per i nostri figli, ma anche per noi, per la nostra dignità di donne”.
Cafiero De Raho attuale Procuratore nazionale antimafia, parla del Protocollo e del cambiamento epocale che porterà per le donne di ‘ndrangheta che vogliono lasciare la famiglia mafiosa e cercare un posto diverso lontano dai territori d’appartenenza. “Le donne di ‘ndrangheta che tentano di dare un avvenire diverso ai propri figli, da oggi possono farlo, è un Protocollo che si può definire “liberi di scegliere””.
Un protocollo che ha trovato nel presidente del tribunale dei minori Roberto Di Bella il massimo artefice e promotore, insieme alla Presidenza del consiglio dei ministri, con il dipartimento delle pari opportunità, all’onorevole Boschi, al procuratore di Reggio Calabria, Libera, Monsignor Nunzio Galantino che con la Cei sostiene economicamente con una parte dell’8 per mille.
Insomma la rete per le donne di ‘ndrangheta e di mafia che vogliono lasciare il loro territorio è attivata da magistrati, psicologi, formatori, “che consentirà loro di essere accolte con amore. Lasceranno una famiglia in cui le donne sono trattate a livello di schiave - continua De Raho- e i ragazzini sono destinati ad essere uomini della 'ndrangheta, per entrare in un circuito totalmente diverso, in cui saranno ospitate in località lontane e saranno accolte in modo di avere una sistemazione e una protezione e un alternativa per i propri figli”.
De Raho e ricorda Lea Garofalo come uno dei “più brutti esempi di come ci siamo mossi con le istituzioni. Sostanzialmente si è consentito che questa donna fosse ripresa da quella mafia da cui era fuggita per dare una vita diversa alla figlia. E’ questo che dobbiamo tenere a memoria. Questo protocollo è un modo umano di rapportarsi alla gente, non c'è il magistrato burocrate, c’è il magistrato che è attento a quello che avviene intorno a lui”.
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