I senza terra raccontati da Szilárd Borbély

Un villaggio del Nord-Est dell’Ungheria ai confini con l’Ucraina, ai confini del mondo. Una comunità di diseredati attaccati ad una terra che c’è ma non sembra appartenere a nessuno dei suoi membri, una famiglia protagonista e spettatrice di una vita che le scivola addosso con giornate che si susseguono senza speranze di cambiamento.

Questo scenario è al centro de I senza terra (Marsilio, 2016) dello scrittore ungherese Szilárd Borbély, nato a Fehérgyarmat, piccolo centro situato non distante dalla frontiera con l’Ucraina e la Romania. Si tratta del suo primo e ultimo romanzo dal momento che l’autore è morto suicida nel febbraio del 2014 all’età di cinquantuno anni.

Quello di Borbély, è un lavoro dai tratti presumibilmente autobiografici: a un’infanzia difficile si è aggiunta, poco più di un decennio fa, la perdita della madre brutalmente uccisa in una rapina. I senza terra trasuda di ricordi legati a un contesto sociale caratterizzato da privazioni e miseria umana. È la descrizione di un mondo che esclude, anche per i bambini, la possibilità di sognare. Tutto deve essere ricondotto ad una realtà dura, spietata. La famiglia protagonista del romanzo porta avanti, come altre, una battaglia quotidiana contro la povertà, le privazioni e la discriminazione di lingua, etnia, provenienza.

La vicenda si svolge negli anni Sessanta, sotto un regime che ha già provveduto da tempo ad espropriare le terre. Gli eventi raccontati nel romanzo si producono davanti agli occhi di un bambino che cerca di fuggire dalla realtà in cui vive inventando una dimensione tutta sua, le cui regole sono dettate dai numeri primi. La sua memoria è data dai ricordi conservati e reinterpretati dalla madre.

Quella della madre è una figura centrale: la donna, privata ormai di quasi ogni forma di femminilità, è quasi soprattutto un’entità sessuale che ha messo al mondo dei figli cui bada, con drammatica e sofferta tenerezza, affrontando comunque una stanchezza bestiale che le fa maledire la vita e disprezzare l’uomo che l’ha resa madre senza poesia. Ma anche quella del padre è una figura tragica: discriminato per le sue origini, periodicamente disoccupato, non cattivo ma sconfitto, passa da una bettola all’altra, si ubriaca e torna a casa quasi privo di coscienza, per buttarsi pesantemente sul letto.

La vita va avanti così nel villaggio, prosegue sempre uguale a sé stessa tra gente abbrutita e quasi rassegnata alla sua condizione, salvo il sottile filo che la lega debolmente alla speranza di un riscatto che non arriva mai.

La povertà è una dura padrona che tuttora affligge diversi abitati della campagna magiara, soprattutto ai confini orientali e sud-orientali del paese.

Definito dal Nobel ungherese per la letteratura Imre Kertész, recentemente scomparso, “la grande promessa spezzata della letteratura ungherese”, Borbély è stato principalmente un poeta.

Ne I senza terra, romanzo di grande respiro letterario e umano, reso in italiano dall’eccellente traduzione di Mariarosaria Sciglitano, affronta temi e situazioni difficili riuscendo a evocare atmosfere e stati d’animo con uno sguardo poetico che arriva ad assolvere pietosamente questo mondo di diseredati e descrive con tenerezza lo sguardo del bimbo che osserva quanto avviene intorno a sé e non giudica. La sua è un’esistenza non ancora piegata dalla miseria interiore che segna inesorabilmente la vita del villaggio. Quest’ultimo diventa, nel racconto di Borbély, simbolo, senza tempo né colore politico, dell’indigenza e dell’isolamento, nonché oggetto di un lento e progressivo abbandono a sé stesso.

Massimo Congiu



Szilárd Borbély