Parliamo di Bioetica - I tumori al seno ereditari sono solo il 5-7%, ma sono i più aggressivi e tendono a colpire le giovani. La mutazione genetica non è un destino assicurato né la chirurgia estrema può eliminare completamente il rischio
Macellari Giorgio Domenica, 30/06/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2013
Se Angelina Jolie riceve l’Oscar la notizia allieta tutti. Ma se si fa togliere le mammelle per timore di un cancro, allora è un pugno allo stomaco. Eppure è successo. È stata proprio la splendida attrice a rivelarlo, con un coraggio pari alla sua bellezza, in un articolo apparso sul New York Times nel quale ha spiegato di essere portatrice di una variante mutata del gene BRCA-1.
Da un lato la notizia è un bene, perché attira l’attenzione delle donne su un problema poco conosciuto, quasi negato: la possibilità che un tumore al seno colpisca in età giovanile, fra i 30 e i 40 anni, talvolta anche prima. Da un altro lato è un male, perché rischia di seminare il panico e avviare a decisioni sbagliate.
Fare chiarezza non è facile, in questo campo, perché ci sono di mezzo concetti difficili, come la genetica, gli alberi genealogici e i guasti del DNA. Ma alcune cose semplici le si possono capire.
Cominciamo allora a dire che la maggior parte dei tumori al seno - quelli cosiddetti “sporadici” - non dipende dalla familiarità. Quelli francamente ereditari, per fortuna, sono solo una piccola porzione, più o meno il 5-7%. Purtroppo, però, sono anche fra i più aggressivi e tendono a colpire, appunto, le donne giovani. Ereditario significa che nel patrimonio genetico di una donna - in qualcuno dei suoi cromosomi, in altre parole - si annida una mutazione ricevuta da uno dei genitori. Nel caso dei tumori mammari sono implicati almeno due grossi gruppi di geni, chiamati BRCA-1 e BRCA-2 (l’acronimo BRCA sta per le iniziali delle parole inglesi BReast CAncer, che significano cancro del seno; i numeri 1 e 2 indicano invece che quei geni si trovano in due cromosomi diversi). BRCA-1-2 sono preziosi: si tratta infatti di geni onco-soppressori: il loro straordinario lavoro consiste nel sorvegliare la doppia elica di DNA contenuta nei cromosomi e nel riparare i danni che di tanto in tanto vi si producono. Si capisce dunque quanto possa essere deleteria la mutazione a carico di quei geni protettori che, quando si guastano, consentono al DNA di cambiare faccia: da amico che regola la buona vita cellulare, quel DNA assumerà le sembianze di uno spregiudicato killer, insensibile agli inutili richiami delle cellule sane. E una volta che il guasto si è instaurato, il rischio che ha una donna di contrarre un cancro al seno può balzare dal 10% della popolazione media fino all’80%.
Questa prima serie di informazioni fa da piedistallo al compito della comunità scientifica. Se infatti ci sono in giro donne con una mutazione così crudele, la prima cosa da fare è individuarle. Come? Invitando la popolazione femminile - con particolare riguardo a quella più giovane - a fare una semplice analisi della propria storia familiare. In questo modo ogni donna potrà verificare - ad esempio - una di queste eventualità: tre casi di tumore mammario comparsi prima dei 50 anni; due casi di tumore mammario e un caso di tumore ovarico a qualsiasi età; un caso di tumore mammario a carico del padre o di un fratello. Di fronte a simili circostanze una donna può chiedere la consulenza di un genetista medico e valutare l’opportunità di sottoporsi a un test genetico, per verificare se in un proprio cromosoma si trovano geni del gruppo BRCA mutati.
Se la donna si sottopone al test e se questo risulta positivo bisogna decidere come comportarsi. Ma qui viene la parte più difficile, perché oggi la medicina non offre soluzioni attraenti.
Una strada, ad esempio, è quella scelta da Jolie: una strada tutta in salita. Non tutte le donne con BRCA mutato, però, possono avere la stessa forza - o la stessa paura - dell’attrice. Per frugare nell’albero familiare e dentro ai propri cromosomi ci vuole infatti il coraggio di poter affrontare una verità sconvolgente. E per farsi togliere entrambe le mammelle bisogna essere molto coraggiose, ma anche parecchio spaventate. Tuttavia la donna deve essere consapevole di alcuni “dettagli”: primo, la chirurgia non riduce completamente il rischio di cancro, perché è tecnicamente impossibile rimuovere integralmente tutta la ghiandola mammaria (il rischio può essere ridotto fino al 90-95%); secondo, i programmi di ricostruzione sono lunghi e impegnativi (difficilmente basta un solo intervento); terzo, il risultato estetico non sempre soddisfa in pieno le aspettative della donna; quarto, la sensibilità erotica dell’areola e del capezzolo - quando queste strutture sono risparmiate - può essere ridotta o perduta per sempre; quinto, la presenza di protesi può comportare alcune complicanze e, talora, la necessità di una loro sostituzione o rimozione definitiva.
La scelta chirurgica, estrema e irreversibile, trova maggior sostegno negli Stati Uniti. Ma la mentalità dei senologi europei è diversa: qui prevalgono altre soluzioni. La più raccomandata è la sorveglianza dello stato di salute del seno con visite, ecografie, mammografie e risonanze magnetiche periodiche e ravvicinate (da sei mesi a un anno, non oltre): l’obiettivo è sorprendere la crescita del tumore quando è ancora piccolo, perché in queste condizioni la sua curabilità rimane altissima. Certo, questa soluzione non è priva di inconvenienti: sottoporsi ogni sei mesi a esami - e per buona parte della vita - è sicuramente ansiogeno, perché ad ogni appuntamento la paura sale; ma è anche un percorso impegnativo, perché richiede pianificazione, tempo e costanza: e abbandonare è una tentazione facile.
Un’alternativa intelligente sta nella prevenzione con farmaci capaci di controllare la proliferazione tumorale, come il Tamoxifene a basse dosi (un farmaco di impiego comune nelle donne che hanno già avuto un tumore al seno) e la Fenretinide (un derivato della vitamina A). Anche per questa soluzione, tuttavia, ci sono alcuni svantaggi: la sua efficacia protettiva non è affatto garantita; inoltre esistono effetti collaterali, come per tutti i farmaci.
Per tutte le donne portatrici del danno genetico, infine, è suggerito uno stile di vita salutistico (dieta mediterranea con alto consumo di frutta, verdura, fibre, olio di oliva extravergine, pesce azzurro, attività fisica moderata e costante, no al fumo e agli alcolici) abbinato alla raccomandazione di non usare contraccettivi orali (nocivi, al contrario di quanto accade nella donna senza mutazioni genetiche). Ma anche questa proposta ha il suo lato debole: per quanto possa contribuire a ridurre il rischio, tuttavia non lo annulla; per di più è efficace solo in una parte delle donne mutate; infine è complicato adottarla per tutta la vita.
Come si può ben vedere, le soluzioni non sono affatto semplici; nemmeno scontate. Per di più nessuna garantisce un’efficacia assoluta per impedire il cancro. Anche il test genetico mostra limiti e suscita perplessità: perché non tutti i laboratori offrono i requisiti di qualità per eseguirlo; perché la sua positività non è una condanna certa, così come la sua negatività non è garanzia di immunità (ci sono sempre i tumori sporadici, ai quali la donna è esposta con un rischio pari a quello della popolazione femminile media); perché solleva domande e preoccupazioni e fornisce poche risposte rassicuranti; e per il rischio di abusi da parte di approfittatori che sfruttano la paura e l’ignoranza della donna, offrendo il test a pagamento anche a chi non ha i requisiti per sottoporvisi. E quest’ultimo argomento apre la strada ai numerosi risvolti etici del problema: fino a che punto la positività del test riesce a mantenersi notizia riservata? Compagnie assicuratrici, datori di lavoro e partner - ad esempio - potrebbero essere interessati a conoscerne lo stato. E chi si assume la responsabilità di fornire consigli alle donne positive? Dopotutto le loro reazioni - dalla depressione alla negazione, dall’angoscia all’iperattività - non sono sempre prevedibili E queste donne, poi, come si dovrebbero comportare nei confronti dei fidanzati, o dei figli? Dire? Non dire?
Ecco, il problema del BRCA è tutto questo. La raccomandazione forte che si può dare alle donne resta comunque una, fondamentale: trattandosi di scelte capaci di modificare profondamente la vita, per le procedure di analisi, sorveglianza, prevenzione e terapia si affidino solo ai centri abilitati a farlo. In Italia ce ne sono diversi, lì possono trovare i professionisti più competenti per aiutarla. Alla donna che già vive con le sue paure, non se ne possono davvero aggiungere altre.
L’esternazione di Jolie è stata potente. Ma può avere un valore di utilità solo se interpretata con molto buon senso. I centralini di molti istituti di genetica sono stati letteralmente bersagliati da donne terrorizzate, la maggior parte delle quali prive dei criteri di familiarità necessari per una consulenza. E la risaputa emotività della popolazione italiana non aiuta a riflettere. Ci vuole un po’ più di razionalità. La mutazione genetica non è un destino assicurato. Né la chirurgia estrema può eliminare completamente il rischio. Una rigorosa sorveglianza periodica sembrerebbe davvero la soluzione più appropriata.
E, infine, un pizzico di filosofia: il cancro fa parte dell’esistenza, ma non la rende più incerta, semplicemente fa riflettere sull’incertezza stessa della vita. Temere la propria morte è morire prima del tempo. Nessuno è immortale, ogni giorno è un dono.
Giorgio Macellai è Direttore UO Chirurgia Senologica, AUSL di Piacenza
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