Venerdi, 22/07/2011 - Bisogna arrivare all’ultimo racconto, per capire l’inizio, il motivo, il contenuto e il metodo dell’intero volume.
E’ ovvio per chi conosce l’arte di Edith in tutte le sue forme espressive: collages, fotografie, tessuti, poesie, gioielli, maglioni, dolci, musica e silenzi. Un dire e un raccontare l’impossibile, che scopre in se stessa e che appartiene al bagaglio umano. Potrebbe voltare lo sguardo da un’altra parte, illudersi e ingannarci. Invece ci racconta questa condizione umana nel suo non detto più angoscioso, rifiutato eppure quotidiano e comune all’esperienza di chiunque, come è scritto nelle ultime pagine, per l’appunto.
Ci riesce? L’autrice, già esperta nelle arti prima citate, come se la cava con il racconto?
Se il racconto è la forma letteraria più vicina al sentire contemporaneo, usata per descrivere un frammento di vita e un momento più o meno decisivo, proprio questo troviamo in tutte le storie del libro, distinte in: sospese, gentili, di coppie, lunga, perfide, cattive, ultima. La breve storia non ha uno svolgimento classico, come la novella, la conclusione è chiara, ma inattesa e rispecchia la visione del mondo dell’autrice, che ha rinunciato a credere logici i fatti che narra, né considera onnipotente la sua arte, anzi il contrario, vaga tra la polvere delle macerie della memoria in una continua ricerca. Per questo i racconti hanno un finale aperto a molte interpretazioni. L’autrice accetta d’interpretare e rappresentare la nostra condizione: la solitudine, la mancanza di relazione, l’isolamento, l’indifferenza, persino la cattiveria e l’ ossessione, anche tra chi convive sotto lo stesso tetto. Certo Edith conosce i maestri del racconto: Poe, Mark Twain, Gogol, Cechov, Kafka(che ha scritto Der Nachbar, che significa Il vicino, come la Storia lunga della nostra), fino ai maestri italiani, come Pirandello, Corrado Alvaro e Moravia, ma ha un modo tutto personale di immedesimarsi nei diversi punti di vista, in compagnia di una scenografia, dove l’elemento umano trova continuità e consolazione nelle cose e nella natura. Colpisce, ad esempio, la sua abilità a raccontare i comportamenti maschili, secondo logiche da uomo e, quando si sofferma sull’agire e sul pensare di protagoniste donne: mai la pietà è fortemente sentimentale, bensì è raccontata con la realtà e la crudezza di un colpo di spada, che ferisce all’improvviso. Ogni lettore potrà esprimere le sue preferenze. Ce ne è per tutti i gusti, i generi e le situazioni. Nessuno, però, negherà l’abilità dell’autrice a fermare quel momento, quel luogo, il paesaggio, l’albero, il fiore e le persone, dove ognuno di noi è stato, che tutti abbiamo incontrato nell’anima, temuto o goduto, aiutando a conquistare la coscienza del limite: se non sappiamo sciogliere i nodi sul filo della vita, ci sia concesso, almeno, di osservarli bene, fino a trasformarli in narrazione e racconto nella lingua nazionale, senza paura di violarla con l’uso di termini estranei, appartenenti ad altre lingue più o meno europee. Per vincere l’isolamento, comprendere e condividere.
Edith Dzieduszycka, Nodi sul filo, Manni editore, Lecce 2011
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