Società violenta - Abbiamo imparato a convivere con la morte rappresentata anche quando è vera
Giuliana Dal Pozzo Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2006
La moglie. La moglie e i figli. La moglie e i suoceri. A volte un estraneo che si trova lì per caso. La violenza ha mille volti e si diverte a mostrare ora l’uno ora l’altro, cambiando o confondendoli e seguendo tragici cicli nel suo copione. Da quello che raccontano le cronache di queste ultime settimane, pare volersi accanire a ritmo incalzante contro le famiglie i cui membri vengono spietatamente uccisi con i mezzi più diversi: armi da fuoco, coltelli da cucina, corde, veleni, bastoni, iniezioni letali. L’assassino non è un criminale che considera la vita umana meno importante di una cassaforte e penetra con i suoi complici nella villa addormentata, ma qualcuno che della famiglia fa parte: qualche volta un figlio, il più delle volte colui che dell’intero clan si considera “il capo”. Il finale della strage in famiglia ha due versioni: l’omicida tenta di nascondere le tracce del delitto oppure si suicida; comunque, vivo o morto che ne esca, poliziotti, psichiatri e criminologi cominciano a indagare sul suo gesto e sulla sua personalità. Come può essere successo? Perché? Intervengono anche i vicini sbigottiti, vengono intervistati i parenti in lacrime: una famiglia normale, lui così affettuoso con i bambini…Poi si fanno largo i dubbi: forse la famiglia faceva una vita troppo riservata, lei buongiorno e buonasera sulle scale, lui aveva perso il lavoro e doveva arrangiarsi giorno per giorno con occupazioncelle saltuarie, anni prima aveva sofferto di nervi, lei era più giovane di molti anni e forse voleva separarsi. Insomma i precedenti dello scatenarsi della follia in un uomo particolarmente fragile di fronte alle difficoltà della vita c’erano, ma non sono stati ascoltati da nessuno. Un atroce fatto di cronaca, nera, una storia di disagio umano e di disinteresse sociale, e il caso si potrebbe chiudere così. Ma sarebbe sbagliato liquidare tanto frettolosamente una realtà che sempre più spesso si presenta ai nostri occhi inorriditi attraverso le immagini che la televisione non ci risparmia: quei corpi di donne e bambini senza vita, quelle stanze messe in disordine dalle ricerche del Ris. Quelle cucine piene di sangue, quel tavolo intorno al quale una famigliola come quelle della pubblicità avrebbe dovuto sedersi serena. In una sola settimana sono stati tre gli uomini che hanno sterminato mogli e figli: troppi per parlare di semplice disagio individuale. Dovremmo invece osservare con sguardo più acuto la vita di relazione non solo di chi commette un crimine, ma di tutti noi e fare un bilancio dei valori che ci vengono proposti e ai quali dovremmo uniformarci. Purtroppo sono di solito dei falsi valori. Ciò che costa fatica si scansa, ciò che è vecchio si butta. Bisogna essere dinamici, furbi, più scattanti di altri per diventare presentatori televisivi o portaborse di un ministro. Troppe volte la perdita di un posto di lavoro porta non alla lotta per il superamento delle difficoltà economiche ma al rifiuto della vita, troppe volte la fine di un amore, il fallimento di un matrimonio si conclude con la morte di una o più persone fra cui bambini innocenti. Manca spesso la fiducia di farcela, così da soli, così abbandonati, così poco importanti. E con la fiducia negli altri e in se stessi manca la speranza che qualcosa di imprevisto arrivi ad aiutarti. Meglio quindi abbandonarsi a quell’ignoto fiume che ti trascinerà in un posto di pace. Con la morte, grazie anche ai mass-media e in particolare alla televisione, si è imparato a convivere: bambini che muoiono di fame nel Terzo Mondo, neonati ritrovati nell’immondizia, striscioni razzisti allo stadio che incitano all’odio, malattie mortali che migrano sulle ali dei cigni infetti. Si è imparato perfino come si fa ad uccidere, nei campi di battaglia, nelle camere della morte, nelle rapine a mano armata, nei treni e nelle torri che saltano sotto gli attacchi terroristici. A volte, davanti al gigantesco spettacolo che la morte mette in scena nel mondo intero, la vita pare rifugiarsi impaurita negli angoli meno popolati della terra. E’ vero, c’è chi parla nel suo nome e pare difenderla, ma lo scopo è spesso quello di rendersi popolare e ottenere voti: arriva un assegno ai bambini che sono nati in un fortunato anno pre-elettorale, anche a quelli nati morti, ma migliaia di piccoli vivono sotto la soglia di povertà e abitano in case sovraffollate e malsane. E tuttavia ha questo di bello la vita, come i fiumi carsici non si arresta nemmeno davanti alle catastrofi naturali o alle follie dell’uomo. Purché l’uomo non abbandoni la speranza di agire per migliorare la vita sua e quella degli altri come lui. Invertendo il vecchio detto potremmo affermare che dove c’è speranza c’è vita.
(31 marzo 2006)
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