Appunti da una presentazione del libro di Francesca Rosati Freeman, Benvenuti nel Paese delle donne, XL edizioni. Uno studio sulla società matriarcale dei Moso, minoranza etnica cinese nella provincia dello Yunnan
«La società matriarcale dei Moso si distingue da altre società simili perché non pratica il matrimonio». Inizia così il suo intervento Francesca Rosati Freeman, autrice del libro Benvenuti nel Paese delle Donne: un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso (XL edizioni), presentato lo scorso 17 giugno alla Casa Internazionale della Donna a Roma.
Chi sono i Moso e dove vivono? «I Moso sono una minoranza etnica matriarcale e matrilineare, che vive nello Yunnan» (yun = nuvola; nan = sud), provincia sudoccidentale della Cina situata ai piedi dell’ Himalaya, ai confini con il Tibet, in un paesaggio di valli e montagne attraversato dal fiume Yangtze. Un’unica strada conduce al lago Lugu, “lago Madre” nella lingua dei Moso, a 2.700 metri sul livello del mare. A 300 km vive la società dei Naxi (si pronuncia “nasci”), imparentata con i Moso, ma occorrono 7 ore di auto per arrivarci. Originariamente anche i Naxi erano una società matriarcale: non lo sono più da alcuni secoli, perché, più esposti dei Moso all’influenza delle varie dinastie imperiali cinesi che si sono succedute, hanno subito l’imposizione delle loro leggi, compreso l’obbligo del matrimonio. Oggi sono riconosciuti dal governo cinese come minoranza etnica nazionale autonoma. Le diapositive che accompagnano il racconto di Freeman, ritraggono alcune donne Naxi con abiti tipici. Ciò che colpisce del loro abbigliamento, è la ricchezza di simboli “celesti” di cui sono ornati: la Luna, il Sole e le 7 stelle dell’Orsa Maggiore a sottolineare il legame di queste popolazioni con il cosmo - «portano l’universo sulle spalle». Anche ai Moso fu imposto il matrimonio, ma con la morte di Mao Tse Tung, la prescrizione non fu più osservata e si tornò all’usanza matriarcale e, a differenza dei Naxi, i Moso non sono amministrativamente autonomi.
La casa. All’ingresso del villaggio principale campeggia la targa di benvenuto, che recita in cinese e in inglese: “Benvenuti nel Paese delle Donne”. Inizia da qui il viaggio nella vita quotidiana dei Moso. Le case sono costruite interamente in tronchi di legno e si compongono di una stanza comune, detta Meng Low, che è anche la stanza dove si ricevono le visite e dove dorme la “Dabu” la persona che tiene le redini dell’estesa famiglia. Comunicante con questa, c’è una terza stanza, la “camera dei misteri”, la cui porta è sempre chiusa: qui, si dà alla luce e si onorano i defunti. Nella Meng Low ci sono panche basse tutt’intorno che a sera diventano letti per i bambini che vivono nella casa. Al centro della stanza c’è un focolare costantemente acceso con sopra una marmitta piena di acqua, per avere sempre acqua calda per cucinare, per il tè e da bere, poiché i Moso non bevono acqua fredda. La famiglia moso è una famiglia estesa a discendenza matrilineare: i figli sono della famiglia della madre. Nonostante le donne Moso possano avere due bambini ciascuna (in casi rari, è concesso loro di averne fino a 3), l’indice di natalità resta basso, circa lo 0,8%: in una famiglia moso ci potrebbero essere più donne in età di procreare e se ognuna decidesse di avere due figli, come consentito dal regolamento vigente, ci sarebbero troppi bambini di cui occuparsi. La maternità è estesa anche ai figli delle altre donne: i bambini infatti considerano le altre donne della famiglia come “madri”, anche se distinguono la madre naturale da queste. In netta controtendenza rispetto alla politica nazionale del figlio unico maschio, nascere bambina non solo è consentito, ma è una benedizione in area moso.
La famiglia. I Moso vivono nella stessa famiglia fino alla quarta generazione, insieme alla Dabu, la donna più anziana che ricopre il ruolo di capofamiglia. La sua autorità è riconosciuta da tutti i membri del nucleo familiare e la sua elezione è regolata da criteri di meritocrazia: al momento della successione, infatti, la Dabu in carica sceglie colei che prenderà il suo posto tra le donne della sua famiglia più meritevoli per imparzialità, capacità della gestione domestica e dei beni, moralità e rispetto per la persona. Questi elementi determinano l’autorità della Dabu, che non abusa mai del suo potere: le decisioni sono condivise ma lei ha l’ultima parola, e possono coesistere due Dabu senza che vi sia competizione tra di loro. Nonostante l’uomo abbia un ruolo secondario all’interno della famiglia, tuttavia non è oggetto di oppressione da parte delle donne: sa occuparsi molto bene dei figli delle sorelle, costruisce e ripara la casa. Una siffatta distribuzione dei ruoli ne fa una società democratica ed egualitaria. Il matriarcato moso, infatti, non è l’equivalente del patriarcato.
Le attività lavorative. I Moso sono una società contadina, uomini e donne lavorano indistintamente la terra servendosi di una tecnologia semplice: aratro a trazione animale, per l’aratura, bastone da scavo, per la semina e raccolta manuale del prodotto finale. Coltivano principalmente cereali, prodotti orticoli ma non il riso: le risaie non rientrano nella cultura moso, essendo la loro una comunità montana. Si praticano anche la pesca e la raccolta di una particolare pianta lacustre, e del suo fiore, che mangiano insieme alla carne o in zuppe: per queste attività, i Moso si servono di imbarcazioni scavate a mano da tronchi d’albero (attività di competenza degli uomini), senza motore. L’unica imbarcazione a motore presente sul lago è un natante con funzione di ambulanza, data l’impraticabilità della strada in determinati periodi dell’anno. La tessitura, praticata dalle donne, e l’oreficeria, praticata dagli uomini, sono tra le attività più diffuse. Negli ultimi anni, però, l’incremento del turismo ha permesso lo svilupparsi di altre attività commerciali. Principalmente sono sorti piccoli ristoranti e pensioncine a conduzione familiare, nei villaggi più facilmente raggiungibili. Il turismo porta benessere ma anche le prime avvisaglie di un divario economico tra le famiglie, prima inesistente. I Moso non lo incoraggiano, però va da sé che se una casa o un ristorante si affacciano sul lago, questi sono maggiormente richiesti dai turisti. Lo stesso dicasi per i villaggi: quelli prospicienti il lago sono preferiti a quelli situati più all’interno.
Il matrimonio. «I Moso si amano, ma non si sposano. Considerano il matrimonio come un attacco alla famiglia stessa». Con questa affermazione lapidaria, per il pubblico “occidentale” a cui si rivolge, Freeman ci conduce al centro della cultura moso, e della sua peculiarità principale. La cultura moso fa della separazione tra vita sentimentale e vita famigliare un principio irriducibile, l’unica eccezione concessa riguarda i funzionari di Stato, i quali hanno l’obbligo di contrarre matrimonio per fini istituzionali. Le relazioni tra uomo e donna avvengono nella più totale libertà sessuale, soprattutto da parte della donna: non esiste il concetto di proprietà della persona. Le loro relazioni affettive si basano sull’amore, sono disinteressate, non sono vincolate né da legame economico né giuridico, nella totale convinzione che non si costruisce su un sentimento così fragile come l’amore.
All’età di 13 anni avviene il passaggio alla vita adulta: la ragazza riceve il costume tradizionale, che indosserà da quel momento in ogni occasione di festa comunitaria. Riceve inoltre la chiave della “camera dei fiori”, dove porterà il suo innamorato. Anche il ragazzo riceve il costume tradizionale ma non la chiave. Nessun membro della comunità oserà infrangere la privatezza degli incontri amorosi: il rispetto della privacy è osservato da tutti. Quando due persone si piacciono, la donna conduce l’uomo nelle sua stanza dei fiori dalla quale, passata la notte, l’uomo se ne va. Per farvi ritorno il giorno dopo e quello dopo ancora. La segretezza accompagna la relazione fin quando non diventa stabile; a quel punto, la donna ne parla alla Dabu che per l’occasione prepara una cena a cui parteciperanno le donne anziane più vicine alla famiglia. Il legame tra i due innamorati è detto “unione itinerante” proprio per il suo carattere non fisso: è l’uomo a spostarsi nella casa della compagna e vi continua ad andare ogni notte finché c’è amore tra i due. Quando il sentimento si esaurisce, l’uomo torna a dormire nella sua casa materna.
L’assenza del matrimonio non ha conseguenze sulla comunità: non vivendo insieme, non ci sono contrasti. Le donne hanno il controllo del proprio corpo e della propria sessualità. I figli appartengono alla famiglia della madre, la loro educazione è affidata alla famiglia, i beni non sono in comune. I bambini non crescono con il padre biologico, anche se egli può vederli e stare con loro quanto vuole. Fino a poco tempo fa, i bambini potevano anche non sapere il nome del loro padre, ma con l’istruzione obbligatoria si è resa necessaria la paternità manifesta per poterli iscrivere a scuola. Questo fatto tuttavia, non è fonte di frustrazione nei bambini, che crescono nell’amore dei famigliari e in serenità.
L’infedeltà è anacronistica, dal momento che le coppie non si promettono mai niente a lungo. La violenza domestica non esiste, nessuno è proprietà di nessuno, si appartiene solo alla famiglia materna. La gelosia è derisa, anche pubblicamente: è un fattore culturale, non naturale. Ciò non vuol dire che tra i Moso non c’è violenza, ma questa è sporadica: si ha solo dove le coppie si sposano e coabitano. La violenza non viene occultata, ma è resa pubblica e la gestione del conflitto è regolata da una donna saggia: i Moso sono tolleranti. Sono gelosia e violenza che generano disordine, nella visione moso.
La maternità. Tutte le donne svolgono la funzione materna verso i figli delle sorelle. I bambini sono considerati la reincarnazione degli antenati, fino a tre anni stanno con la madre, poi si trasferiscono nella Meng Low e dormono con la Dabu fino ai 13 anni. La funzione di padre è svolta dallo zio materno. In una società matrilineare il padre naturale non ha alcun ruolo perché non è considerato consanguineo: la consanguineità ha valore sociale e culturale, più che biologico. Ma in nessun caso i bambini sono privati dell’affetto dei padri, né i padri dei figli. Concetti come “figlio illegittimo”, “complesso di Edipo” non esistono presso i Moso; se non ci sono discendenti maschili, si adottano maschi adulti. Anche le donne sono adottabili, ma devono avere una relazione stabile e a differenza dell’uomo, la donna adottata può diventare capofamiglia, Dabu, della famiglia adottiva.
Le istituzioni. Il capo villaggio è un uomo, il cui compito consiste nel coordinare le decisioni prese dalle Dabu. È un ruolo nominale. Nessun regolamento però impedisce alle donne di essere elette. È una donna ad aver meritato il titolo di “Regina dei Moso”. Proveniente da Chengdu e data in sposa al governatore locale si è adoperata per istruire i Moso e affiancando il marito nei vari incarichi governativi si è fatta portavoce dell’istanza della popolazione locale presso il governo centrale e ha continuato a farlo dopo la morte del marito fino all’età di 81 anni.
La religione e il culto dei morti. I Moso praticano una forma sincretica di Buddismo tibetano e dabaismo. La natura è sacra ed è femminile: ovunque si incontrano le bandiere di preghiera colorate, soprattutto nei luoghi più elevati e ventilati. Gamu è la montagna sacra ed è oggetto di culto. I Daba, preti sciamanici maschili, sono i custodi della religione antica e hanno il potere di liberare le donne dagli spiriti maligni: in una prospettiva armonica, rappresentano nella religione quello che le Dabu sono nella società. Più volte al giorno girano attorno ad uno stupa (monumento funerario) in senso orario facendo ruotare il mulinello di preghiera. I Moso sono una società spirituale, spesso si incontrano donne recitanti preghiere mentre percorrono avanti e indietro le strade del loro villaggio.
L’ultima diapositiva mostra una nicchia sulla montagna sacra di Shi Zhong Shan abitato dalla minoranza etnica dei Bai, dove la Yoni, una vulva gigante scolpita nella roccia su una base a forma di fiore di loto, è un luogo di culto antico, un inno all’origine della vita. Fine della presentazione. Applausi.
Francesca Rosati Freeman, Benvenuti nel paese delle donne, XL edizioni, 2010, 200pgg. ill.
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