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I lavoratori hanno da perdere. Le lavoratrici di più

I lavoratori hanno da perdere. Le lavoratrici di più

Tempo di crisi - “...se c'è una critica da rivolgere a gran parte del femminismo... è quella di non aver percepito che la propria novità si inseriva nel fluire della storia delle donne che praticamente da sempre lottano per la propria libertà

Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2009

Meglio seguire la radio che non la tv. Dopo le 23,30 Radio3 sta mandando in onda interessanti interviste a testimoni di storie che potremmo credere superate: sul tema della prostituzione riandavano a com'erano "le case" prima della legge Merlin uomini che le avevano frequentate e donne che ci lavoravano. Un'altra inchiesta sulle miniere della Sardegna ha fatto sentire la voce, oltre che dei minatori, di donne intelligenti che raccontavano com'era, fino a tutti gli anni Settanta, la peggiore delle condizioni di lavoro. Lavoro da uomini, che coinvolgeva le donne nella "cura" più tragica: nessuna sapeva, ogni giorno, se l'uomo che accompagnava alla porta e a cui aveva lavato i piedi la sera prima sarebbe tornato. Questione affettiva, ma anche di paura, della povertà, della fame dei figli. Quando un minatore aveva un incidente, erano i compagni che andavano alla sua casa incapaci di dire subito la verità della morte; ma le vicine che arrivavano con i drappi neri a coprire i mobili toglievano le speranze. Se "l'ingegnere" licenziava un minatore che faceva politica, toccava alla donna andare con il figlio in braccio a supplicare di non ridurre alla fame una famiglia. Il lavoratore sindacalizzato e dimesso poteva trovare un posto se la moglie lo raccomandava al parroco, ma quando il nuovo datore verificava la ragione del licenziamento anche il nuovo posto era precluso. Uno fortunato poteva arrivare alla pensione, ma con i polmoni mangiati dalla silicosi e dipendente più che mai dall'assistenza della sua donna.
Erano gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: c'erano i patti aziendali, gli scioperi delle miniere, la polvere nera, le paure, la fame dentro le case. Le donne non lavoravano, ma conoscevano tutto del lavoro; non facevano politica in prima persona, ma, nere e velate, erano ben consapevoli di ciò che facevano nelle file di protesta davanti alla miniera.
Le donne che, invece, negli stessi anni lavoravano nelle regioni italiane più avanzate (e che si impegnavano in ogni lavoro, anche i più duri, come la monda del riso) partecipavano alle lotte del lavoro sia insieme con gli uomini, sia da sole, per interessi propri che non si chiamavano "di genere" ma che comprendevano i diritti di maternità, la parità salariale (legge solo dal 1977), la scuola dell'infanzia (allora detta "materna", definita nel 1968), l'estensione dei benefici alla lavoratrice agricola, la pensione alle donne.... Lottavano per l'emancipazione. Parola difficile in seguito emarginata dal lessico femminista. Ma propria - e con onore - della storia del nostro paese. E proprio della storia della differenza. Perché le donne erano subalterne davanti alla legge e usavano per le loro rivendicazioni il termine che rievocava l'uscita dalla schiavitù: si "emancipavano", come gli schiavi, i lavoratori, i popoli oppressi dal colonialismo. Non erano libere: lo sapevano bisnonne e nonne, mogli di minatori o lavoratrici nelle fabbriche del Nord o emigrate, che andavano a manifestare a Roma pagandosi il lusso di perdere una giornata di paga.
Se c'è una critica da rivolgere a gran parte del femminismo, in un momento di crisi, è quella di non aver percepito che la propria novità si inseriva nel fluire della storia delle donne che praticamente da sempre lottano per la propria libertà. Storia che è stata delle operaie e delle casalinghe e che continua ad esserlo, anche se, come donne, non sappiamo più - ma non lo sa nessuno - come configurare i nuovi problemi. Forse, nonostante il pensiero teorico femminista fosse un'urgenza assoluta, abbiamo peccato di presunzione, di autoreferenzialità. Pensando di fondare una politica delle donne abbiamo fatto solo un po' di teoria politologica minoritaria. Per fare politica, infatti, non basta l'intellettualità: non si va da sole. Tanto più che, anche teoricamente, siamo sempre state ben convinte di formare un genere, non un'élite. E di avere problemi comuni.
Oggi mi sembra necessario recuperare pensiero su due piani che intrigano tutte, intellettuali comprese: il lavoro e la famiglia, due situazioni che rischiano di riassorbire anche noi (e certamente le nostre figlie) nella regressione.
Il lavoro non è più come una volta: lo sfruttamento del "padrone" è diventato - dopo essere passato attraverso una regolarizzazione che ha consentito un agio ritenuto irreversibile - precariato. La dominanza sessuale, che permetteva concessioni "allegre" alle aggressioni dei maschi, ha attraversato il periodo dignitoso dell'impegno contro le molestie sessuali: ora il campo è stato ceduto al mobbing neutro. E gli stupri non hanno più a che vedere con la fabbrica.
Le giovani sentono sempre più di voler lavorare come i maschi. Altrimenti perché in tutte le classifiche scolastiche sono migliori di loro? Ma neppure il precariato, al femminile, è uguale a quello maschile.
Facciamo due conti con la vita di una commessa: meno di mille euro, orari prolungati, la Rinascente ha perfino tolto gli sgabelli alle vendite; per fortuna una nonna si accolla la bambina, ma un nonno con l'Alzheimer richiede una badante. Sapete che una così è una che - una su cinque - rinuncia al lavoro perché preferisce badare alla figlia e al nonno? E sapete che un segretario Cisl mi ha detto di avere paura, perché le giovani che credono positiva la vita di casa, ne traggono tale frustrazione da mandare a rotoli l'equilibrio della famiglia?
Non abbiamo proposte da mettere su in cinque minuti, ma dobbiamo fare mente locale sui problemi che ci sono spuntati attorno senza che ce ne accorgessimo e ci intercettano. Anche in questo saremo sole, perché nelle crisi, se le donne stanno a casa, c'è qualche posto in più per gli uomini, che, perfino se immigrati, sono lavoratori migliori e almeno non partoriscono. D'altra parte le donne desiderano fare figli e hanno rimediato alle carenze demografiche anche senza aver ottenuto né dallo stato né dalle regioni i servizi necessari alla loro libertà e senza quel sostegno "alla famiglia" che tenga conto degli interessi femminili (defiscalizzare 300 euro non vale come istituire asili nido o day hospital).
Gli uomini, intesi come i partners della coppia, aiutano più spesso che per il passato, ma come membri sociali di partiti e sindacati restano incapaci di farsi carico dei diritti lavorativi delle proprie compagne di vita. Le quali, proprio nei periodi di maggior difficoltà per l'economia, sarebbero qualcosa di più di un ammortizzatore sociale vivente. Negli anni '70 - sempre del secolo scorso - donne dei sindacati tedeschi proposero di acquistare ore di lavoro per comperarsi una tregua "per sé": furono derise e non se ne fece nulla. Obama ha presentato la figura responsabile del lavoratore che rinuncia a qualche ora per salvare il posto di un collega, come sollecitazione per i tempi di vacche magre. Ovunque i lavoratori rischiano di perdere diritti e le organizzazioni del lavoro non trovano nessuna bacchetta magica. Anche perché non è stata valorizzato l'apporto della "differenza": partendo dall'esperienza delle donne, meno incastrate nei meccanismi rigidi e maestre di flessibilità, non era impossibile innovare, per esempio, approfittando dell'elettronica per adottare, almeno nelle imprese grandi, la mobilità degli orari. Il "part-time", che è stato un lavoro non qualificato - e perciò destinati alle donne - poteva essere una scelta di valore, se più equamente configurato.
Se anche in Germania nella dirigenza delle strutture pubbliche e private e nei consigli di amministrazione le donne sono poche nonostante l'alta professionalità, è perché si sa che anche la più omologata di loro, una che dice di essere "un" presidente, non ignora che cosa significa avere un bebé da allattare quando si lavora e non sempre si opporrebbe a investire denaro in un nido nella struttura.
Con l'urgenza di tamponare i guai della crisi illustri economisti fingono di scoprire la necessità di comprendere la riproduzione nel concetto di Pil: le economiste da decenni dicono che i prodotti di una nazione non sarebbero neppure possibili senza che qualcuno producesse i beni della sopravvivenza. Si perderà anche questa occasione, come si è perduta l'opportunità di realizzare maggiori profitti estendendo l'occupazione femminile?
Nelle crisi i lavoratori hanno, tutti, molto da perdere. Le lavoratrici di più. Occorre pensarci per tempo: l'accettazione di un "neutro" che ha assorbito la "differenza" ha già reso le donne o politicamente arrabbiate o indifferenti. Chi non si allarma (sindaci - anche candidati - amministratori, sindacalisti, politici, futuri deputati/-e europei, soprattutto maschi, ma anche donne e le nostre organizzazioni femminil-femministe) ci pensino: il calo delle votanti o, dopo, le proteste di piazza sono prospettive serie.

(2 marzo 2009)

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