I Calabiani di Permunian, l’ossessione dei giorni che furono
A rievocare i volti della propria infanzia, come in una seduta spiritica, si rischia di esserne travolti. Storia di un uomo e dei luoghi della sua infanzia, dove abitava, e che ora lo abitano
Lunedi, 23/05/2022 - Avete presente quando ci si ferma a parlare con un abitante storico del nostro quartiere, e si inizia a ricostruire l’avvicendarsi dei vari negozi? Lì c’era il bar che faceva i migliori cappuccini della storia, all’angolo quel sarto così bravo, al posto del negozio sulla piazza c’era il calzolaio con gli occhi azzurri, ancora prima il fruttivendolo canterino, per non parlare del salumiere bizzarro. Geografie antropologiche che mutano col tempo, quartieri che si deformano, paesi che si sfigurano. Nonostante lo avremo fatto chissà quante volte, alla prima occasione ci ricaschiamo: e come dimenticare la fioraia dietro al palazzo, o il fornaio proprio qui, al posto della pizzeria? Quand’ero più giovane attribuivo quest’abitudine a una mera nostalgia per i vecchi tempi, in seguito ho capito che c’è dell’altro: nominare più e più volte le cose, i luoghi, gli abitanti, persino gli eventi, significa mantenerli in vita, e dare a noi che li abbiamo conosciuti, o anche solo sfiorati, il senso di un’appartenenza, e del nostro stare qui.
È il principio del rito che compie Francesco Permunian nel suo ultimo libro, Calabiani. Antologia privata dei miei demoni infantili, pubblicato da Oligo editore e fortemente voluto da Davide Bregola, che ne dirige la collana. Ma attenzione: non è un rito indolore, è un viaggio ad alto rischio emozionale, che conduce fin dentro gli abissi, strappa via volti spenti dal tempo e li riporta violentemente in superficie, per poi far osservare con sgomento i contorni del proprio strazio.
Permunian rende qui un omaggio appassionato alla sua terra di origine, Ca’ Labia, un piccolo centro del Polesine. È un omaggio straziante però, scritto da testimone di giorni ormai lontani che l’autore si ostina a tenere in vita, seppur sospeso in una dimensione ibrida, in cui passato e presente sono così intrecciati da soffocarsi a vicenda, come quelle piante rampicanti che, a forza di attorcigliarsi intorno agli alberi, finiscono per asfissiarli.
Per realizzare una tale impresa, l’autore fa appello a ogni mezzo: prosa, poesia, fotografie, piantine dei posti. Utilizzerebbe anche la pittura e la musica probabilmente, tanto è necessario per lui onorare i giorni che furono, il suo Polesine, i suoi Calabiani. E così li nomina tutti, fin dove arriva la memoria, attraverso brevi racconti, testimonianze, incubi, immagini efficaci e potenti: “Lunghi stradoni bianchi e silenziosi, un cielo immenso solcato da rondini e gabbiani: sono cresciuto con la convinzione di essere prigioniero in qualche villaggio fantasma dei film western, in attesa che arrivassero gli indiani a liberarmi da quel sortilegio”.
Ecco, il villaggio fantasma è quello che Permunian attraversa e ci mostra, ora facendo una riverenza a uno spettro, ora un baciamano a un’ombra. E tuttavia non si tratta di una passeggiata serena. In questo “dialogare con i vivi e con i morti”, sono le parole di “spavento” che emergono: “terrore liquido”, “cadaverico”, “furia distruttiva”, “tregenda”, “racconti orrifici”, “morti”, “paura”, “barca infernale” costituiscono “la geografia del mio precoce dolore di vivere”, l’origine del suo “paludismo psichico”.
“Il fatto è che, quando mi capita di rivedere il Polesine, mi risulta impossibile distinguere la realtà dalla finzione dei ricordi. I vivi dai morti. E così a furia di rovistare nel passato, prima o poi arrivo a raschiare il fondo della memoria”.
A mano a mano che i ricordi sfilano, si ha la percezione che siano loro a guardare l’autore, come fossero rimasti lì, appostati, ad attenderlo. Come le finestre della casa natale, che osservano “come tanti occhi infantili spalancati nel vuoto”. Ricordi che spargono un pessimo odore “quando risalgono dalle paludi dell’oblio”. Sono “echi di ombre stravolte e distrutte dal tempo (…), fantasmi che con voce imperiosa reclamano un ultimo sorso di vita, urlando furiosi dai campi sconvolti della giovinezza.” Ed è pericoloso fare l’appello di ognuno, ci si ritrova a essere “uno zombie che sta frugando in una discarica di sogni stropicciati”.
All’inizio i Calabiani appaiono come un romanzo frammentario, o meglio, un racconto inframmezzato da scampoli di testimonianze. Poi, a un tratto, si inciampa in frasi che sono poesia purissima, e se ne rimane storditi. E allora capisci che Permunian va seguito senza fare domande, trattenendo il fiato, fino dove ci vuole portare. Pagina dopo pagina i ricordi si fanno ossessioni, le ossessioni si fanno visioni dissennate, e in questo delirio occorre solo fare attenzione a non crollare, mentre l’autore ci fa “restare in ascolto delle voci che si rincorrono dentro i muri (…). Ah, lo sfuggente e mellifluo vocio dei morti!” Muri che tornano spesso a tormentare l’autore. Pareti che, sotto la carezza dei versi, vengono giù, sbriciolandosi, realizzando finalmente il suo intento: far incontrare vivi e morti, farli prendere sotto braccio gli uni dagli altri, obliterando distanze che sono vere solo se ci crediamo. Del resto, qui i defunti sono vivissimi: si lamentano del chiasso, dei vivi, di essere spiati. Hanno il loro caratterino, insomma.
Ricordi da tenere a bada, “affinché non volino via”. Ombre “che avanzano, inarrestabili, attraverso i giorni nel nostro scontento”. “Fantasmi fatti di cenere e di carne”.
“I Calabiani costituiscono dunque un esercito di ombre benevole che popolano i cieli della mia infanzia; un’armata di fantasmi alla cui testa io stesso avanzo come un generale nel corso di certe sere quando – chiuse le finestre e le porte di casa – mi metto a cavalcioni di un cavallo a dondolo e dopo aver soffiato dentro una trombetta di cartapesta, suono la carica gridando a perdifiato «à la guerre! À la guerre, miei prodi guerrieri!». Un inguaribile Don Chisciotte a guardia del suo villaggio incantato e infestato, un uomo tornato bambino aggrappato alle vesti di voci spente. Tra queste, spicca quella della nonna che lo spaventava con racconti orrorifici e il terrore degli “occhi”, i mulinelli dell’acqua da cui guardarsi per evitare di venirne risucchiati. Occhi che sembrano ora proprio quelli dei suoi fantasmi che, se non sta attento, rischiano di tirarlo giù “nel fondo di un fosso diventando ben presto fango, nient’altro che fango”.
Sogno e realtà che si intersecano a velocità impazzita, fino a scontrarsi e diventare scaglie di sguardi, sorrisi, nomi, cartine.
C’è un passaggio, in particolare, in cui il testo si sofferma su “tutti gli abitanti e le case che si trovano a nord del Tartaro”. Qui l’imperfetto e il presente si alternano come in una danza a due e, se in un primo momento può sembrare un’imprecisione, poi si comprende che non lo è affatto: in quest’opera c’è forse differenza tra passato e presente? Forse che i bambini mostrati in fotografia non continuano a sgambettare lungo le pagine? E le abitazioni, le stradine, le famiglie? Sono rimasti tutti lì, ad attendere che Permunian li riesumasse uno a uno, che ridesse loro vita, come quei pupazzetti a carica che da immobili, una volta girata la chiavetta, iniziano a muoversi come niente fosse.
D’altronde, chi di noi non desidererebbe fare un salto nei giorni della nostra infanzia, ancorché non rosea? Un viaggetto, il tempo di rivederli tutti i volti che abitavano la nostra epoca, e nominarli uno per volta, soprannomi compresi, richiamandoli come in una seduta spiritica. Quasi per timore di dimenticarli. Quasi sperando di farlo. E forse, finalmente, lasciarli andare.
Questo infatti è il momento del congedo, di un ultimo sguardo prima dell’addio. È tempo, in queste pagine, di lasciare libero il dolore, “la tua assenza” che “bruciava le pareti della primavera”, e i “fili di pianto/dentro questa casa”. Affrancare le ombre che sono “la mia scorta di protezione”, “i fantasmi aguzzi”, “il rumore da risacca di tutti i giorni passati”, pur sapendo che “mai, in verità, mi sono allontanato da questo luogo di memorie”.
Verso la fine del libro, si ha la sensazione che tutti i personaggi e i viali rievocati non abbiano fatto altro che correrci incontro e ripeterci ossessivamente: guardate che è tutto vero! A partire dalla copertina, che riproduce la locandina di una sagra a Ca’ Labia nel 1899 (“E chi martedì 15 corrente non accorrerà alla Sagra della vicina Cà-Labia per assistere al meraviglioso spettacolo?”, e le fotografie con le didascalie, i dettagli, i riferimenti storici. Come se l’autore avesse bisogno di rimarcare: questo dolore l’ho attraversato davvero, questi luoghi sono stati i miei luoghi, quella era la mia gente.
È lo stesso autore a spiegarlo nella nota finale: “si tratta dunque di una auto-antologia in cui, giunto alla mia età, ho tentato di fare i conti con il passato, vale a dire con quel grumo di ossessioni e di nostalgie (e di probabili traumi originari) che stanno alla base della mia scrittura. E, di conseguenza, della mia stessa esistenza”.
Se avete avuto la fortuna di conoscere, anche poco, Francesco Permunian, sarà difficile non sentirne la voce mentre percorrete le sue parole, con quell’accento frizzante e il sorriso curioso verso la vita. E riconoscerete presto la sua foga di raccontarsi, di dirvi delle donne e degli uomini che ha incrociato, delle storie che ha attraversato, senza lesinare sui dettagli, che sono importanti, perché sono lì a strepitare: è tutto vero, loro c’erano, io c’ero.
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