"...Mia madre sarebbe stata un’artista, aveva enormi doti creative, ma non le fu consentito di esserlo ..."
Clarice era quasi coetanea di mia madre, ella nata nel 1920, mia madre nel 1923. Di sé la scrittrice una volta ebbe a dire che lei era l’esatto contrario di quello che sembrava dire il suo cognome che conteneva le parole lys -giglio e spectator- spettatore. Ella e la sua scrittura ne erano abissalmente lontani. Da bambina seguivo mia madre, all’epoca abitavamo a Pagani, quando si recava sul terrazzo a stendere i panni, e io ogni volta inciampavo nei proditori lapilli che l’eruzione del 1944 aveva là a profluvie disseminati e là stavano pure a distanza di decenni.
Quando poi, a distanza di tanti anni, cominciai a leggere i primi inimitabili e del tutto nuovi romanzi di Clarice Lispector, quando ero a Napoli mi capitava di avere un déjà vu, a volte mi pareva di scorgerne i passi, per cui sostavo, mi fermavo sui lapilli - righi di Clarice Lispector, come se stessi seguendola sul terrazzo, come se mi fosse anch’ella in qualche modo madre.
A Napoli la scrittrice attende alla revisione ultima del romanzo Il lampadario. “Nella grande casa in cui, magra, scalza, solitaria, la piccola Virginia si aggira «in concentrata distrazione» i mobili spariscono un po’ alla volta, «venduti, rotti o troppo vecchi», e le porte si aprono su stanze in cui regnano «il vuoto, il silenzio e l’ombra». Abbandonato nella vasta sala da pranzo – dove brillano «vetri e cristalli addormentati nella polvere» – c’è però un lampadario, unico sopravvissuto di antichi fasti: «Il grande ragno avvampava», e Virginia «lo guardava immobile, inquieta, sembrava presagire una vita tremenda”.
Delle sue opere molto si è detto, la sua scrittura è stata di un’assoluta intensità, condotta sul bordo di un abisso al cui fondo arde un fuoco che però si disvela infine essere un nulla, Clarice Lispector ha raccontato il male di vivere di tanti personaggi, che è un dolore universale, persino cosmologico, con una prosa in cui il massimo della visionarietà coincide con il massimo del realismo.
Accostata a Kafka e ad altri grandissimi autori, riconosciuta come la maggiore scrittrice brasiliana, nata in Ucraina col nome di Chaya, in una famiglia ebrea che a causa dei pogrom e della guerra civile, si trasferì prima in Romania e dopo poco in Brasile, dove prese il nome Clarice, a soli 23 anni, venne consacrata portavoce della nuova letteratura brasiliana, col suo primo romanzo, Vicino al cuore selvaggio, suoi riferimenti erano stati James Joyce, e lo studio approfondito di Spinoza ed era inoltre anche molto bella, al pari di Greta Garbo.
Anche mia madre era molto bella, anche di lei si diceva che somigliasse ad una diva del cinema, questo apprendevo tra le tante altre cose, quando bambina (come tutti i bambini fanno) guardavo il lampadario di casa nostra, ne avvertivo la minacciosa incombenza, gli anni pure in cui mi sbucciavo le ginocchia inciampando in terrazzo sui lapilli.
“Non mi corregga. La punteggiatura è il respiro della frase, e la mia frase respira così. E se a lei sembro strana, mi rispetti. Anche io, in fondo, sono stata costretta a rispettarmi”, scrisse ad uno zelante correttore che voleva intervenire sui testi che lei inviava al giornale su cui scriveva.
Mia madre sarebbe stata un’artista, aveva enormi doti creative, ma non le fu consentito di esserlo come a molte altre (e non solo in quegli anni, in tanti paesi tuttora accade), in quanto donna, dagli zelanti correttori di bozze sempre in agguato. Però è stata Lei a farmi scrittrice.
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