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HANNAH ARENDT SECONDO VON TROTTA

HANNAH ARENDT SECONDO VON TROTTA

A tutto schermo - La banalità del male e l’uso del pensiero critico nell’ultimo film della regista tedesca dedicato alla grande filosofa ebrea

Colla Elisabetta Lunedi, 17/02/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2014

Non era compito facile quello che Margarethe Von Trotta si accingeva ad intraprendere decidendo di girare un film sulla pensatrice e scrittrice tedesca Hannah Arendt. Ma proprio per questa vocazione comune ad entrambe, la regista e la filosofa, di produrre opere originali e di pensare il mondo, la storia e l’arte da un’angolazione profondamente personale e, talvolta, inattuale, la pellicola, intitolata semplicemente Hannah Arendt, risulta così autentica, vibrante e sorprendente. La scelta narrativa è quella di descrivere un periodo ‘tardo’ della vita della Arendt, quando, già integrata da anni negli Stati Uniti - dove emigrò nel 1941 con il marito e la madre, fuggendo alle persecuzioni della Gestapo in Germania e dal campo di prigionia di Gurs in Francia - vive a New York e conduce un sereno quotidiano, circondata da una cerchia di amici intellettuali, lavorando come insegnante alla New School for Social Research, insieme al marito Heinrich Blucher, ex componente della Lega Spartacus di Rosa Luxembourg e poi membro del Partito Comunista Tedesco. È il 1960, l’anno del processo al nazista Adolf Eichmann, ed Hannah si propone alla testata New Yorker come inviata speciale per seguire l’evento: vuole vedere in faccia uno dei ‘mostri’, capire perché ma, giunta in Israele, si accorgerà che Eichmann altri non è che ‘un uomo mediocre’, un burocrate, che ha abdicato la sua capacità di pensare - secondo Hannah la più alta delle qualità umane - e solo a causa di ciò ha potuto commettere ogni tipo di efferatezza, trincerandosi dietro il leit motiv tipico dei nazisti, che ‘eseguivano ordini supremi’. Nei suoi cinque articoli sul New Yorker, la Arendt descrive dunque la ‘banalità del male’ ed invita a stare in guardia perché essa può annidarsi ovunque e solo l’utilizzo adeguato del pensiero può preservare il mondo dalle catastrofi. Il reportage scatenò negli Stati Uniti una vera e propria caccia alle streghe contro la filosofa, accusata d’insensibilità e crudeltà e di giustificazionismo contro il nazismo, anche per il suo j’accuse ai capi di numerose comunità ebraiche europee di aver collaborato con i nazisti in cambio di ‘quieto vivere’ o vantaggi personali, informazione emersa nel corso del processo con testimonianze schiaccianti. Molti fra i suoi amici più cari l’abbandonarono e la Arendt rischiò anche il posto all’Università, ma non abdicò mai alle sue convinzioni. “M’interessava, come in altri miei film - afferma la Von Trotta - trovare la donna dietro a questa grande pensatrice indipendente - che non si può definire ‘femminista’- la cui visione su certi temi è stata capita con molto ritardo. Una delle sue frasi celebri ‘nessuno ha il diritto di obbedire’ evidenzia il suo rifiuto di obbedire a ciò che non fossero la sua autodeterminazione e le sue idee. Quando formulò il concetto della banalità del male venne aspramente attaccata come nemica del popolo ebreo ma oggi tale riflessione critica è parte del dibattito sui crimini efferati, come quelli nazisti. Secondo alcuni professori le pesanti accuse di essere ‘senza cuore’ e ‘priva di sentimenti’ vennero rivolte alla Arendt perché era una donna, dato che altri giornalisti espressero giudizi analoghi senza alcuna conseguenza.” Completato da preziose immagini di repertorio del processo Eichmann, da alcuni flash-back sulla relazione sentimentale giovanile fra Hannah e Martin Heidegger (suo professore e mentore all’Università, dal quale prese le distanze quando lui aderì al nazismo) e dalla magnifica interpretazione di Barbara Sukova (attrice cult in Anni di Piombo), il film, uscito nelle Giornate della Memoria, è distribuito in Italia in lingua originale (tedesco, ebraico ed inglese, sottotitolati) dalla coraggiosa Ripley’s Film.



‘Anita B.’ ovvero come sopravvivere al dopo Auschwitz

Tratto dal romanzo della scrittrice e poetessa ungherese Edith Bruck, Quanta stella c’è nel cielo, il nuovo film del regista Roberto Faenza (Jona che visse nella balena, Prendimi l’anima), dal titolo Anita B., racconta la storia di un’adolescente che, sopravvissuta ad Auschwitz, cerca di ricostruire la propria identità nella Cecoslovacchia del Dopo Guerra, dove ben pochi vogliono ricordare gli orrori appena trascorsi. Ospitata infatti dall’algida zia Monika (la brava Andrea Osvart), unica parente viva che abita vicino Praga col marito, il figlio ed il giovane cognato Eli, Anita (interpretata da Eline Powell) si accorge presto che la ‘memoria’ non è gradita, quando le viene severamente vietato di parlare dei genitori o del campo di concentramento. Unici suoi confidenti il nipotino Roby, di appena un anno, e l’affascinante Eli, che farà di tutto per sedurla con conseguenze prevedibili. Nel mélange di lingue, popoli e culture della mittel-Europa in cerca di redenzione e ricostruzione, Anita conoscerà personaggi incredibili come lo zio Jacob (Moni Ovadia nel ruolo a lui più congeniale), coscienza critica della comunità ebraica ed estroso musicista, la mascolina Sarah che, armata di pistola, organizza i traghetti per la Palestina, il giovane David, orfano dei genitori, due scienziati che si sono tolti la vita agli albori del nazismo. “Non ho mai chiesto ad Edith Bruck quanto ci sia di autobiografico in quelle pagine ma ho voluto aggiungere B. ad Anita, in omaggio al suo cognome. Il premio Nobel Elie Wiesel diceva che, nel momento in cui entri in rapporto con l’Olocausto, diventi a tua volta testimone. Per me è una bellissima responsabilità. Come la protagonista di Prendimi l’anima, anche Anita B. è in viaggio verso il passato con un solo bagaglio, il futuro, in un ideale tragitto comune a due donne coraggiose e indomite”.

E.C.





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