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Graffiti. Non solo propaganda. Non solo calligrafia.

Graffiti. Non solo propaganda. Non solo calligrafia.

Gaza Strip - la mostra fotografica di Mia Groendhal, “Gaza Graffiti, messaggi di amore e politica”, catalogo pubblicato dall’American University della Cairo Press, ha fatto il giro della West Bank e di Israele per approdare a Gaza. Sette anni di fot

Antonelli Barbara Lunedi, 07/06/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2010

Anche avvalendosi di una fervida immaginazione, sembra difficile pensare a Gaza come ad una galleria nelle mani dei “writers”, uno spazio a cielo aperto per la scrittura murale. Parlando con molti di quelli che sono stati a Gaza, il primo colore che viene in mente è il grigio. Soprattutto dopo la terribile devastazione lasciata da Operazione Piombo Fuso e l’assedio israeliano che imprigiona un milione e mezzo di palestinesi da quattro anni. Eppure i graffiti sono creature danzanti che animano il deprimente grigio dei muri dell’area più affollata del pianeta. Cosi li descrivono le fotografie di Mia Groendhal, oltre trenta anni di reportage e fotografie in giro per il Medio Oriente. Quella per i graffiti della Striscia è stata per la fotogiornalista svedese una passione tardiva. Solo nel pieno della seconda Intifada comincia a prestare attenzione alla calligrafia elaborata e colorata che invade le strade e i viali di Gaza. Mia arriva per la prima volta a Gaza negli anni novanta, “ma allora le priorità erano altre” racconta. Le sembrava superfluo analizzare un fenomeno marginale rispetto ai più urgenti problemi della Striscia e dei palestinesi. Comincia a fotografarli solo 10 anni dopo, all’inizio solo occasionalmente poi con una tenacia e una scrupolosità quasi scientifica, i graffiti diventano una lente per interpretare alcune delle dinamiche che caratterizzano Gaza. “Quando arrivi la prima cosa che vedi sono i graffiti” dice Mia, “ Non puoi resistere, sembra che i muri stiano lì a dirti “Guardaci, Leggici”.

Mia è partita dall’arte: ha documentato le evoluzioni calligrafiche, i ghirigori iridescenti che affollano le vie, anche dei campi profughi. Poi si è soffermata sui messaggi, ne ha decifrato i contenuti. Ha catalogato i graffiti in slogan politici, in calligrafia pura. E ancora in messaggi sociali, annunci di eventi comunitari e familiari, un matrimonio, la morte, l’Haij, il pellegrinaggio. Poi le effigi dei rais, i ritratti degli shaheed, i martiri, cosi vengono chiamati quelli che sono stati uccisi o che hanno dato la loro vita per la resistenza palestinese. La scrittura murale racconta gli umori di Gaza, ne testimonia la tristezza, i dolori, le tragedie, ma anche la tenacia e la resistenza di un popolo che sopravvive.

“Un mezzo espressivo che copre tutto il mondo emozionale, dalla vita alla morte” dice Mia. Il graffito diventa partecipazione istintiva all’elaborazione di un messaggio corale. “Quando scrivi non scrivi solo per te stesso, scrivi per il partito o la fazione di cui fai parte, per un amico che si sta per sposare, per ricordare un compagno che è stato ucciso”.

I graffiti a Gaza non sono il frutto della cultura underground. Già negli anni Ottanta i palestinesi usavano i muri per lasciare messaggi, non c’era Internet, non c’era facebook. Era un mezzo per comunicare con la gente, tra la gente: annunciare scioperi della fame, appuntamenti, diffondere messaggi politici. Il graffito era anche propaganda e come il colore della kefiah anche il colore dello spray identificava l’appartenenza politica, il verde per Hamas, il rosso per i partiti di sinistra, il nero per Fatah.

Un fenomeno che non è mai scomparso, né a Gaza né in West Bank. Durante la prima Intifada i graffitari dovevano fare in fretta, rischiando di essere arrestati, i messaggi sui muri erano parte della resistenza contro l’occupazione Israeliana e di conseguenza puniti: i soldati israeliani ordinavano all’intero quartiere di ripulire i muri, se trovavano un murale. I graffiti sono riemersi con nuove tecniche e nuove forme, nel 2000 con lo scoppio della Seconda Intifada.

Nel luglio del 2003 ci ha provato anche l’Autorità Palestinese a cancellare parte di questo universo colorato. In seguito ad un accordo tra Israele e Abu Mazen, sono stati cancellati alcuni dei murales colorati e degli esercizi calligrafici dai muri di Omar bin al-Mukthar street, una delle principali arterie di Gaza City. Ma la rimozione è durata poco. E le strade di Gaza hanno ripreso a essere le pagine su cui è scritta la storia quotidiana di questo fazzoletto di terra. Oggi come ieri messaggi di ogni genere ricoprono i muri, i pali della luce, ancora oggi il graffito è un mezzo per mobilitare la popolazione palestinese, per riaffermare la propria identità politica, per dare un messaggio alla comunità.

Anzi, se ovunque nel mondo le autorità si accaniscono con sanzioni pecuniarie contro i graffitari, considerati alla stregua di vandali, a Gaza il governo de facto di Hamas, non solo li tollera, ma li incoraggia, “organizzando veri e propri corsi di calligrafia” racconta Mia. Quale è la differenza tra i graffiti di Gaza e quelli di Londra o Berlino? chiedo a Mia. “Un graffito nel mondo occidentale è spesso l’opera di un singolo individuo, per affermare ‘ehi ci sono, io esisto, questo è il mio messaggio, o la mia arte’. A Gaza, raramente il messaggio è di un singolo, piuttosto di una fazione politica, di un clan, di una intera famiglia o comunità.” Mia fa l’esempio dei ritratti degli shaheed. “Non è solo un atto per commemorare chi è morto, è un messaggio che l’intera famiglia vuole dare al quartiere, alla comunità, come a dire abbiamo perso un figlio, abbiamo perso qualcosa di prezioso, abbiamo fatto un sacrificio, non chiedeteci altro.”



Un filmato della mostra è disponibile su:

http://www.youtube.com/watch?v=vZ7QX_tfzDs



(7 giugno 2010)

 

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