Domenica, 13/12/2015 - In un suo scritto del 13 novembre 2015, Clara Jourdan si esprime sul dibattito in merito alla Gestazione Per Altri (GPA), comunemente liquidata non senza molte buone ragioni come “utero in affitto”, dichiarandosi favorevole ad un’altra definizione già in uso, quella di “maternità solidale”.
Premesso che i casi di utero letteralmente in affitto sono stati fin qui la maggioranza e non l’eccezione e talvolta con conseguenze anche gravi, ritengo utile esaminare da che cosa nasce il ricorso alla gestazione per altri - che io propongo di chiamare invece gestazione richiesta da altri - e soprattutto da quali presupposti ideologici ed etici muove. Se non riuscissimo a individuare nessun presupposto etico ma solo qualche indicazione di comodo, infatti, servirebbe assai poco discettare più o meno sapientemente su un’altra definizione: in tal caso la dizione di “utero in affitto” sarebbe l’unica veramente appropriata.
Il punto di partenza è individuabile nella domanda e la domanda nel desiderio di avere un figlio o una figlia. Il punto di partenza degli aspiranti genitori, però, perché per quanto riguarda la cosiddetta gestante per altri ci imbattiamo in qualche sorpresa.
In un video diffuso dalle Famiglie Arcobaleno dal titolo “Intervista ad una portatrice per altri”, Nancy, una donna americana, dice testualmente: «Avevo già quattro figli miei e sapevo di non volerne altri, ma mi piaceva essere incinta e ho pensato che, non volendo più figli per me, avrei potuto provare la gestazione per altri». Nella sua mente, dunque, lo stato di gravidanza desiderabile sarebbe stato dissociato già in partenza dal suo esito naturale, quello di occuparsi personalmente della o del generato.
Se questa dichiarazione non derivasse da un’autogiustificazione a posteriori, ma fosse un effettivo a priori rispetto alla destinazione di un figlio, ci darebbe parecchio da pensare. Equivarrebbe a dire: mi piacerebbe essere incinta, ma dopo vorrei disfarmi del bambino. So che non posso farlo, non solo sul piano pratico ma anche su quello etico, perché sarebbe un infanticidio o un abbandono, e allora evito di essere incinta. Paradossalmente, la domanda di genitori committenti sarebbe così non la causa ma la soluzione al problema di base della donna in questione. Io “desidero ardentemente” restare incinta e voi traete vantaggio da questo mio piacere personale.
Ciò suscita inevitabilmente la domanda: ma PERCHÉ una donna può desiderare di essere incinta AL DI FUORI della possibilità di avere un figlio da tenere con sé dopo la nascita? Quale gratificazione soggettiva può trarne? Il fatto che la gravidanza non sia mai stata per lei un problema, come dichiara, non illumina la causa prima della sua propensione. Che si tratti di un desiderio di onnipotenza (motivazione che, quando estremizzata, ha portato qualche altra donna a commettere infanticidi seriali), o di qualcosa che al momento sfugge, mi limito a prendere atto del suo caso e passo a occuparmi in generale degli aspiranti genitori, ovvero dei genitori committenti.
Possono darsi 4 possibilità, che traggo da quanto su GPA effettuate all’estero è pervenuto da notizie di cronaca:
a) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita dell’aspirante madre con lo spermatozoo dell’aspirante padre.
In tal caso il futuro bambino sarebbe geneticamente figlio di entrambi i genitori committenti, che però avrebbero bisogno ugualmente di un grembo materno disponibile ad accogliere, far crescere e infine partorire il figlio progettato, con un coinvolgimento biologico totale sicuramente NON INFERIORE a quello che può qualificarli come genitori (analizzeremo più avanti questo aspetto), condizione che ricorre anche nelle ipotesi successive, con tutte le sue implicazioni;
b) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita dell’aspirante madre con lo spermatozoo di un donatore. In tal caso il futuro bambino sarebbe geneticamente figlio solo della genitrice committente;
c) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita di una donatrice con lo spermatozoo dell’aspirante padre. In tal caso il futuro bambino sarebbe geneticamente figlio solo del genitore committente;
d) che l’embrione da impiantare derivi dalla coniugazione di un ovocita di una donatrice con lo spermatozoo di un donatore. In tal caso il futuro bambino non sarebbe geneticamente figlio di alcuno dei genitori committenti.
Ne deriva che, in quest’ultima situazione, rispetto al legame genitori-figli non v’è nessuna differenza tra un bimbo commissionato e uno adottato, se non il fatto che nel primo caso si tratta di un neonato e nel secondo di un bimbo di una qualche età. Di più: il neonato sarebbe in realtà figlio solo della donna nel cui utero l’embrione è stato impiantato, in quanto solo la gestante avrebbe avuto un rapporto biologico ed emozionale con lui sino al momento della nascita. E tuttavia, questa donna si sentirebbe autorizzata a dar via il bambino ad estranei totali con cui ha stipulato un contratto, ovvero a soggetti motivati solo dal desiderio di godere in proprio di un pupo nuovo di zecca.
All’origine delle situazioni delineate c’è, per i committenti, il desiderio di avere un figlio. Tale desiderio, in sé naturale, non può costituire un “diritto” ove la sua realizzazione implichi non il semplice utilizzo di materiale genetico donato (o eventualmente comprato) ma l’uso massiccio e prolungato di un corpo altrui, che diviene indispensabile per l’attuazione del progetto.
Che non ci sia un diritto non esclude tuttavia che possa configurarsi in futuro una qualche possibilità, benché al momento lo Stato italiano non sembri disposto a occuparsene. Ed è questa eventuale possibilità che mi sembra opportuno esaminare.
Cosa implica il ricorso a una gestante per altri da parte degli aspiranti genitori?
Con tutte le varianti possibili, dovute a una maggiore o minore sensibilità personale, implica in primo luogo che il figlio partorito dalla gestante sia consegnato ai committenti.
Questi potranno recidere ogni rapporto tra l’ex gestante e il piccolo, oppure potranno consentirlo per qualche tempo, o ancora potranno mantenerlo vita natural durante in misura e con modalità più o meno significative.
In altri termini, i genitori committenti si appropriano di ogni capacità giuridica futura delle donna-gestante in rapporto al bimbo generato, per contratto scritto o verbale.
Da parte sua, nell’accettare di compiere una gestazione per altri, la futura gestante cede la propria volontà futura e dunque si aliena e ciò anche se in quel momento non ritiene di voler avere rapporti col bimbo una volta che egli sarà nato. La cede senza condizioni e, col farlo, dipenderà interamente dalla volontà dei genitori ufficiali, anche se avrà maturato un ripensamento al riguardo (in Gran Bretagna pare che possa ripensarci, ma solo al momento della nascita).
Completata l’analisi della coppia “genitrice” - ma potrebbe anche trattarsi non di una coppia bensì di una genitrice o di un genitore single, eterosessuale o gay - nel suo rapporto col futuro figlio e con la gestante, torniamo a occuparci unicamente della “gestante per altri”.
Una donna decide di trasformarsi in questa nuova figura dei tempi nostri per una delle seguenti ragioni:
1 - ha bisogno di denaro e non ha modo di procurarselo. Praticamente si vende, ma, sostengono alcune femministe, se vuol vendersi sarà anche libera di farlo. Analizzeremo più avanti quest’affermazione, perché in questo caso poggia su un presupposto fallace;
2 - non ha bisogno di denaro ma il denaro le fa comodo e lo vuole. Vale anche qui quanto detto già sopra;
3 - le piace mostrare al mondo che può sfidare le leggi della natura e che lei è proprio una donna-donna (un tempo, una donna che non aveva figli non era considerata tale). Patologico, ma non sta a noi spaccare in quattro il capello anzi il cervello di questo eventuale tipo di donna e dunque passiamo oltre;
4 - desidera che la coppia, il single, o la single che si rivolge a lei perché impossibilitata a partorire, possa avere un bambino “proprio” (e qui si ricordano le quattro situazioni diverse analizzate all’inizio) perché è imparentata con uno di loro. Comprensibile, ma non per questo automaticamente accordabile;
5 - ha interesse a che la coppia, il single, o la single che si rivolge a lei perché impossibilitata a partorire, possa avere un bambino “proprio” (e anche qui si ricordano le quattro situazioni diverse analizzate all’inizio) perché le piace poterli fare felici. Comprensibile? Forse sì, forse no, ma comunque non accordabile automaticamente.
È evidente che la condizione di gratuità, che viene proclamata da più parti, può valere solo per le ultime due situazioni esaminate (4 e 5), non per almeno due delle precedenti (1 e 2).
È anche evidente che una gratuità assoluta non può esserci, in quanto si rendono necessarie spese per assistenza e cure, per il benessere fisico della gravida, per il recupero di energie della puerpera e questo non può ragionevolmente rientrare nel dono ma ne esula. Parliamo dunque di una gratuità che tuttavia deve contemplare il totale rimborso delle spese attinenti, in assenza del quale ci sarebbe soltanto sfruttamento.
È chiaro tuttavia che la gratuità, intesa come assenza di guadagno economico della gestante, potrebbe anche essere richiesta da una qualche legge ma praticamente aggirata nei fatti; non soltanto, dunque, non può costituire l‘unico elemento da valutare per un’eventuale liceità del ricorso alla gestazione per altri perché non sostituisce il criterio di responsabilità, sul quale ci soffermeremo più avanti, ma, per quanto possa avere di per sé un valore etico, può configurarsi facilmente come una facciata che accontenta tutti, permettendo che gli occhi restino ben chiusi su una realtà del tutto differente.
Passo ora a un aspetto che viene sistematicamente taciuto e che a me, invece, interessa moltissimo. Trovo infatti che si parli continuamente di diritti senza spesso intenderne il senso e conferendo loro un valore assoluto anche quando sono in aperto conflitto con il diritto di altri.
E poiché a proposito di diritti assoluti molte e molti si sono scontrati apertamente in nome dell’AUTODETERMINAZIONE DELLA DONNA, espongo le mie considerazioni sull’argomento.
Intanto, l’autodeterminazione non è prerogativa dell’essere femminile soltanto. Di autonomia ed eteronomia si discuteva in sede filosofica molto prima che il grido “l’utero è mio e me lo gestisco io” invadesse piazze e strade d’Italia e di una buona parte del mondo.
Autodeterminazione significa diritto di determinare la propria vita, di effettuare le proprie scelte, di decidere del proprio destino e così via. PROPRIO e non di altri. L’autodeterminazione riguarda sempre e solamente SÉ. In questo senso rientra nell’autodeterminazione la scelta di fine vita (che poi la legge italiana non la contempli è tutta un’altra questione). IO chiedo che il MIO corpo muoia e, se non posso farlo da me perché impedita, IO chiedo che altri mi aiutino in un processo di estinzione che riguarda SOLO ME che lo chiedo e non determina il destino altrui, nemmeno di quelli che mi aiutano. Questo vale per donne e per uomini.
Nell’autodeterminazione rientra il diritto di aborto. Il figlio non voluto invade, per qualche mio o altrui errore o per iniziativa violenta (stupro), il MIO corpo e determina il MIO futuro. La soppressione di un embrione NON coincide con una decisione sulla vita futura di un essere umano, perché con l’aborto lo sviluppo sarà fermato prima che l’embrione pervenga allo stadio di essere umano e di conseguenza una vita futura dell’essere non ci sarà. Considerare l’embrione come bambino è una pura stortura mentale, non solo perché l’embrione difetta della completezza del bambino, ma perché al di fuori del corpo ospitante NON potrebbe in alcun modo completarsi e dunque svilupparsi attraversando gli stadi successivi. Perché sviluppo e completezza ci siano, l’embrione NECESSITA di un corpo, che però essendo diverso dal suo non gli appartiene, il corpo della donna ospitante, la quale, nel caso di una gravidanza naturale giunta a termine, diviene (benché in partenza non lo sia) madre.
Scelta di fine vita e di aborto rientrano dunque pienamente nell’AUTODETERMINAZIONE individuale. La stessa cosa non può dirsi, invece, nel caso di una gestazione per altri con consegna finale e definitiva del pupo.
Nella gestazione per altri la donna esce dalla sfera del sé per esercitare una decisione che riguarderà non l’embrione (non è l’embrione che consegna poi ad altri) ma il bambino già nato e dunque un soggetto umano titolare a tutti gli effetti di diritti. Schiaffandolo d’autorità sulla faccia della terra, esercita nei suoi confronti un potere che esula dalla sua facoltà naturale di poter procreare un figlio suo e lo fa al di fuori della responsabilità che ogni genitrice o genitore si assume nei confronti della figlia o del figlio, agendo, dunque, in condizione di IRRESPONSABILITÀ ASSOLUTA. Ed infatti una volta che il bimbo è nato se ne disinteressa, o perché personalmente non ha nessuna voglia di occuparsene, o perché costretta al disinteresse da patti verbali o scritti che ha accettato. Ciò che di fatto ha venduto o ha “donato” non è soltanto, temporaneamente, il suo corpo, ma il “prodotto finito” (il bambino / la bambina) insieme alla propria responsabilità.
Ma ha il diritto la donna di mettere al mondo una creatura umana in stato di irresponsabilità nei suoi confronti? Senza il suo intervento quel bimbo o quella bimba non sarebbe mai nata e dunque la responsabilità oggettiva di tale venuta al mondo è, quanto meno in misura paritaria, anche sua. Lo è in pieno, se consideriamo NEL REALE quel che avviene nel corso di una gravidanza tra la donna e il futuro bambino, se cioè infrangiamo il principale dei tabù culturali che ci sono stati imposti. La cultura maschilista ci ha perversamente insegnato a nascondere il vero, per poter pareggiare con la finzione ciò che pari non è nella realtà, ovvero il maggiore contributo femminile rispetto a quello maschile nella generazione di un figlio.
Leggiamo ciò che sulla gravidanza successiva ad impianto (in questo caso di embrione con ovocita donato e spermatozoo coniugale) scrive una specialista, la Prof.ssa Alessandra Graziottin, Direttora del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano. «La donna ricevente (…) non è semplicemente un’incubatrice “passiva”. Oggi sappiamo che la madre condiziona l’espressione di geni del figlio attraverso l’ambiente biochimico, ma anche emotivo, che la caratterizza e che è specifico di quella gravidanza. Non è infatti importante solo il tipo di geni che noi ereditiamo (la maggior parte resta in effetti silente per tutta la vita), ma quanto e quando si esprimono. Si parla infatti di “penetranza” ed “espressività” dei geni, proprio per dire che esiste una grande variabilità nel modo in cui le diverse parti del codice genetico possono esprimersi, nel senso di dar luogo a tutte le azioni e le modificazioni che sono di loro competenza. Potremmo dire che lo stesso ovocita, fecondato in vitro con lo stesso spermatozoo, può dar luogo a due bambini in parte diversi a seconda della madre che riceve quell’embrione» (link in calce). Dunque la madre che porta a compimento una gravidanza propria, ovvero che partorisce un bimbo generato da un embrione formatosi per coniugazione di un SUO gamete con quello di un partner maschile (marito, compagno, amante occasionale, o donatore sconosciuto), contribuisce alla generazione del figlio non solo con patrimonio genetico quantitativamente pari a quello del partner o donatore (50%) ma anche con una gestazione che corrisponde a un pacchetto esclusivo comprendente alloggio, vitto, scambio biochimico ed emotivo con cui si determina lo sviluppo del futuro bambino e infine parto (che non coincide esattamente con una passeggiata).
Questo pacchetto esclusivo e necessario è presente in modo interamente analogo nel caso di una gestazione per altri, ma paradossalmente, mentre nel caso di una coppia che ricorre a un ovocita donato la donna gestante e partoriente viene considerata MADRE del bimbo nato, nel caso in cui la gestazione sia stata avviata dietro richiesta altrui la donna gestante e partoriente viene considerata una NON MADRE, al limite una “madre surrogata” o una “surroga di madre”, quando non una “donna portatrice” (forse del sacco della spesa), del tutto priva non solo di coinvolgimento biochimico ed emotivo ma anche e soprattutto di responsabilità e diritti nei confronti del bimbo o della bimba. Condizione di base perché questo avvenga è L’ANONIMATO.
Ma su quale criterio etico si baserebbe questa condizione? L’anonimato quale garanzia per la partoriente che non vuol riconoscere un figlio proprio è altra cosa. Nasce da ragioni specifiche. Deriva dall’intento di offrire alla donna che non avrebbe voluto quella gravidanza un’alternativa oggettiva all’aborto e soprattutto ha lo scopo di evitare gli infanticidi, ovvero l’uccisione di bimbi appena nati ma non voluti. Corrisponde a una “riduzione del danno”, in rapporto al quale lo Stato non dispone di altro potere preventivo. Cancella, sì, la responsabilità personale della donna verso la figlia o il figlio, ma nell’interesse reale di questi ultimi.
Nella GPA, invece, tale cancellazione avviene non nell’interesse del bambino ma dei genitori-committenti che non vogliono legami e pastoie, o che si sappia in giro che il figlio è stato partorito “per procura”. Non significa nulla ricordare che responsabili del bambino saranno quei genitori: la responsabilità è personale e non trasferibile. La cosiddetta “gestante per altri” non può avvalersi della responsabilità dei committenti per eludere l'unica di cui dispone e risponde: la sua.
Da quanto esposto si possono trarre alcune considerazioni finali, la prima delle quali è che SE la GPA dovesse un giorno essere consentita in Italia, essa dovrà essere minutamente regolata per legge secondo criteri etici e non lasciata all’arbitrio delle persone.
Una GPA legalizzata non può avere carattere di FABBRICA. Ne consegue che l’ipotesi di cui al punto d) deve esserne esclusa. In altri termini, un embrione interamente derivato dai gameti di due donatori non può per legge essere impiantato nell’utero di una donna che non intenda occuparsi in proprio e in esclusiva del futuro destino del nato; non può essere convalidata nessuna “consegna” finale, né dietro pagamento, né a titolo gratuito. Nel caso di embrione derivato da due donatori, dunque, la donna partoriente deve automaticamente essere riconosciuta come l’UNICA GENITRICE del bambino. Considerato che una pratica del genere non può avvenire se non in strutture specializzate, queste dovrebbero rispondere penalmente dell’occultamento legato a un preteso anonimato.
Gli unici casi in cui potrebbe essere legittimata per legge una GPA sono quelli esposti ai punti a), b) c), casi nei quali la persona o la coppia committente entrerebbe legittimamente in gioco in quanto generatrice al 100% o al 50% dell’embrione.
Anche nei tre casi sopra considerati, la gestante-partoriente però NON PUÒ decidere di restare ANONIMA in quanto, per il ruolo complesso e volontario che esercita, è automaticamente titolare di diritti e doveri nei confronti del nato.
Le modalità d’esercizio di tali diritti-doveri dovranno essere attentamente studiate dal legislatore. In ogni caso devono concernere almeno questi punti essenziali:
• la regolare frequentazione col figlio comune (tale in effetti è il nato, come dimostra quanto spiegato dalla professoressa Graziottin);
• la consultazione della madre-partoriente da parte dei genitori committenti per le decisioni importanti riguardanti la vita del figlio/a;
• il diritto di ricorso a un giudice dei minori, nel caso in cui il/la genitrice o coppia committente abbia assunto comportamenti o stia per assumere decisioni che la genitrice-partoriente considera lesivi degli interessi vitali della/del minore.
Qualcuno dirà: ah, ma questo non è ciò che vogliono le coppie eterosessuali o gay, o i single che ricorrono in qualche Stato estero a una GPA! Certamente, ma il fatto che non coincida coi loro desiderata non cambia la sostanza delle cose. Proprio perché so bene cosa vogliono sono stata contraria fin qui a una legalizzazione della pratica. Ciò che chi ricorre a tale sistema di regola esige è la cancellazione, immediata o procrastinata di poco, della madre partoriente. Nel migliore dei casi auspica e consente una frequentazione saltuaria, quale illuminata iniziativa personale (vedi ad es. il video sopra citato), che però, come già detto, è insufficiente non prevedendo l’aspetto decisionale ed è priva di garanzia, in quanto il/la o la coppia committente si arroga il potere di decidere di tutte le modificazioni che potrà voler introdurre in tempi successivi nella relazione MadrePartoriente-bambino.
Ciò è impensabile, alla luce di quanto analizzato prima. Ed è impensabile non solo per la responsabilità non trasferibile della DonnaGestantePartoriente, ma anche - e non certo in subordine - per il diritto del bimbo nato (che nessuno sembra disposto a considerare) di non essere separato arbitrariamente da chi, alla pari del genitore o dei genitori che lo hanno “fornito” di DNA, ha contribuito in modo volontario e pervasivo a determinare il suo sviluppo fetale e la sua nascita.
ideatrice del primo progetto italiano di doppio cognome per i figli (1979)
e fautrice dell’abolizione del 143-bis c.c. (cognome coniugale per la donna)
(Per lo scritto di Alessandra Graziottin, vai a: http://www.alessandragraziottin.it/it/articoli.php/Ovodonazione-che-cosa-implica-?EW_FATHER=7770&ART_TYPE=AOGGI)
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