Gli specchi ustori, il racconto di Matilde Tortora
Nessuna più di lei conosceva il movimento da ferma. Ella della casa sapeva ogni piastrella, ogni intercapedine alle finestre, ogni velame frapposto a sguardi provenienti da fuori ma anche a lei che avrebbe potuto guardare oltre i vetri, anche solo per distrazione uno dei tanti giorni che stava in casa e ne percorreva intero il perimetro.
Che cosa fosse un perimetro, lo sapeva bene, avendolo appreso quando frequentava le Scuole Elementari e con la mente andava, se pure ferma seduta al banco, a Siracusa a ingegnarsi di guardare un uomo dirigere specchi ustori che avrebbero incendiato navi ostili che nel ventre ospitavano e avevano fin lì trasportato caterve di nemici.
Uno dei tanti giorni ch'era in casa tracciò a matita il suo proprio ritratto e, come allo stesso modo impariamo la lingua gratis, non c’era stato bisogno che Ella si guardasse in volto in una superficie riflettente, per sapere quali tratti di sé trasporre sulla carta.
Sicché accortamente prese da un quaderno dove di solito in casa s’annotava la spesa, le cose da comprare per il pasto di tutti loro in famiglia e s’accinse a tracciare i contorni del suo viso, a ritrarsi in effigie quella mattina rimasta da sola in casa.
Indugiò ma solo un attimo, si disse che non era uno straforo, anziché passarsi le dita sui contorni del volto, come magari avrebbe potuto desiderare di fare qualcun altro interessato a sapere chi lei fosse, si mise d’impegno e, a lavoro terminato, seppe che quel disegno era fedele a quel che era davvero il suo viso.
A raccontarlo nessuno crederebbe che fu solo dopo aver guardato il suo ritratto che Ella cominciò a scrivere versi. Giorno dopo giorno, anno dopo anno le sue mirabili migliaia di versi.
Le veniva agli occhi della mente un’ape prodiga e nello stesso tempo ebbra di miele e in soggettiva dell’ape, in ralenti, coi versi ci portava ad apprendere il prodigio di parentele che lo specchio dei suoi versi rimandava.
A fior di labbra, mentre se li compitava i versi sulla punta delle dita, le stesse dita che non s’era passata in viso per quel suo lontano ritratto, il suono del mezzogiorno la pungeva e il viso di quell’uomo assente tanto amato le metteva d’improvviso fiamme alle gote, la istigava per un attimo ancora e ancora a far di conto, a perimetrare.
Freschissime di stampe e, a sua insaputa, sette sue poesie pubblicate non le diedero nessun lenimento. Tutt’altro. E continuò a stare in casa, a vestire di bianco, a trarre dal fuoco di un Titano i tanti versi.
Molti anni dopo, un altro immenso poeta, Rilke scriveva in una lettera alla sua amata Merline: “quante volte nella mia vita – e mai come adesso – mi son detto che l’Arte, così come la concepisco, è un movimento contro natura. Senza dubbio Dio non ha mai previsto che qualcuno di noi potesse compiere questo terribile esame di coscienza, giacché pretende d’assediare il suo Dio attaccandolo da questo lato imprevisto e maldifeso”.
Chissà che anche l’imprevisto lato, una tenda non del tutto tirata, uno specchio riflettente apparecchiato millenni fa su una spiaggia in un’isola lontana, quel compitar di dita, il tanto viaggiare dell’uno, lo stare a casa dell’altra, il loro far di versi, il nostro chinarci a leggerli non sia tutto questo l’unico possente balsamo a tutto il nostro stare e all’andare!
Immagine: Specchi ustori di Giulio Parigi del 1600 presso lo stanzino delle matematiche, Galleria degli Uffizi a Firenze
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