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GLI INFANTICIDI, COROLLARI EVITABILI. Quando a farne le spese sono i figli

GLI INFANTICIDI, COROLLARI EVITABILI. Quando a farne le spese sono i figli

Aiutare gli uomini a non uccidere? In primo luogo LEGIFERARE, perché non abbiano nessun bisogno di aiuto. Di Iole Natoli

Martedi, 22/05/2012 - NO, non è possibile che mi tocchi continuare a soffermarmi sui titoli: “Brescia, butta i figlioletti nel vuoto e s'uccide: troppi debiti”.

Qualcuno insegni cortesemente a chi conia spettacolari enunciati come questo che i due punti hanno funzione esplicativa. Troppi debiti? Tutti giù dal balcone o dalla finestra! Come se il rapporto fosse di causa-effetto immancabile; come se non toccasse altri campi il fatto che quest’uomo, esasperato per i troppi debiti e dopo un litigio con la moglie, che avrebbe peraltro tentato di sopprimere, abbia deciso di far piazza pulita della famiglia prima di consegnare alla morte se stesso.

Muoia Sansone con tutti i Filistei! Tranne che i Filistei erano due bimbi inermi e che la loro madre, sfuggita solo alla stessa morte fisica, ne subirà per sempre una morale.

Si levano più voci da più parti. Interveniamo, non si può continuare così. Giusto, ma come? C’è chi propone centri di ascolto per uomini: lo fa Marina Terragni sul suo blog, fra condivisioni dell’idea e talune critiche.

Personalmente penso: sì, ben vengano aiuti come i centri d’ascolto, se ben pensati e gestiti, ma non tutte le iniziative che potrebbero fiorire al riguardo possono esser considerate adeguate a svolgere nel migliore dei modi questo compito. Per prima cosa occorrerebbe attivare una formazione specifica all’aiuto, perché questa capacità non s’improvvisa.

Al di là del CHI possa o debba occuparsi di queste possibili strutture e in che modo, io riscontro però nell’ipotesi un parallelismo, più o meno esplicito, che mi convince assai poco: quello tra i centri antiviolenza per donne e i cosiddetti analoghi centri antiviolenza per uomini.

Perdonate, ma esiste tra le due categorie una differenza abissale, perché se quelli per donne sono per vittime delle violenze, che nel cercare riparo e dunque aiuto vi si rivolgono spontaneamente, gli altri sarebbero per gli autori delle violenze e ciò porta a una serie di domande. Chi sono gli uomini che afferirebbero spontaneamente a quei centri? Quanti uomini sarebbero proclivi ad ammettere di essere violenti e dunque a rischio, quanti disposti ad affrontare un piano di cura che li ponga al riparo non dell’altro ma di se stessi? Quanti sarebbero disposti a sottrarsi al gusto della violenza che hanno già cominciato a esercitare, cercando aiuto nella competenza altrui? Perché se la violenza non avesse in sé anche una componente di scarica liberatoria da qualcosa, una sorta di gusto perverso che può perfino giungere a inebriare (e il nazismo ce ne ha fornito ampi esempi), nessuno vi ricascherebbe mai una seconda volta.

Così, pur riconoscendo che ogni iniziativa ben fatta può contribuire a ridurre in qualche modo il fenomeno, vedo queste possibilità come un tamponamento parziale, insufficiente a risolvere il problema all’origine. E l’origine di questi comportamenti sta altrove: in un intreccio d’input culturali che porta gli uomini a ritenere la famiglia come terreno di proprietà personale, dentro cui collocare mogli e figli. All'occorrenza - ovvero in caso di perdita di controllo - li si può eliminare. E non conta che si tratti talora di figure familiari ipotetiche, come nel caso di semplici fidanzate o donne con cui ci si vorrebbe fidanzare: il “tu sei mia e come te lo saranno anche i tuoi figli” è il virus che scatena gli assassinii.

Non ho scritto “i tuoi figli” per caso. Perché di fatto questa contraddittoria struttura patriarcale che affibbia solo il cognome paterno alla prole, istituendo subdolamente per questa via una malsana idea di proprietà, non si cura di sviluppare negli uomini la paternità reale che nasce dal prendersi cura in prima persona dei figli.

La violenza sulla prole è frequente e non soltanto da parte degli uomini: talvolta sono violente anche le madri, benché in misura largamente minore dei padri. In ogni caso, violenza o non violenza, molto ma molto raramente le donne arrivano a uccidere i figli. E perché? Sicuramente, in primo luogo perché li hanno fatti e il vissuto di una gravidanza e di un parto non si cancella per qualche momento di rabbia. Su questo punto non possiamo far proprio nulla per gli uomini: la natura non ha dato loro analoga possibilità e dunque altrettanto riparo.

C’è però un’altra ragione oltre a quella: le donne allevano i loro figli, se ne prendono cura quotidianamente e instaurano di conseguenza con loro un rapporto che la maggior parte degli uomini non ha. L’estraneità uomo-figli è la regola, la partecipazione l’eccezione.

Allora cominciamo con l’esigere una legge che istituisca non il congedo obbligatorio di paternità di tre giorni - roba da farsi le più matte risate! - ma un congedo obbligatorio di mesi, come avviene in stati più civili del nostro. Facciamo sì che gli uomini partecipino alla vita materiale dei figli fin dalla loro nascita e scopriremo che saranno molto, molto meno disposti a lanciarli giù da finestre o balconi, perché li sentiranno come “figli” e non come garofani da mettere al bavero della giacca, in bella vista, ad attestare - come attraverso il cognome patrilineare - la loro virilità.

Sicuramente ci sono anche altre leggi da attivare, oltre a questa che è stata appena indicata: tra le più urgenti quella per il cognome materno alla prole e una per la riforma dell’istituto matrimoniale, che instauri un’idea diversa di famiglia. Ne occorrerà anche una per l’educazione al rispetto di genere nelle scuole, che al momento vanta solo pochi progetti isolati e che invece dovrebbe divenire preoccupazione primaria del MIUR.

Cosa c’è in Parlamento di tutto questo? Solo una legge per il cognome che dorme sonni eterni e, spaventosamente, null’altro.



Milano, 21.05.2012

©Iole Natoli

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