Lunedi, 25/11/2024 - «Testimoniare un’esperienza di dolore come la mia – legata alla violenza di genere – è un dono che fai agli altri, un impegno sociale. Racconti una memoria di vita che riguarda la società, perché la condizione femminile è una questione culturale che riguarda tutti quanti». Ho tra le mani il nuovo libro di Lucia Annibali, scritto con Valeria Palumbo, “Il futuro mi aspetta”. Leggo le riflessioni di Lucia, una sopravvissuta, durante il viaggio che mi porta a Venezia. Di solito a Venezia si va per un weekend romantico; io ci vado per ascoltare le conclusioni con cui la corte d’assise ricostruisce il femminicidio di Giulia Cecchettin, che a differenza di Lucia purtroppo non è riuscita a sopravvivere. È il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sono sicura che la corte non abbia considerato questa coincidenza nel fissare la data dell’udienza. Eppure questa coincidenza ha un significato profondo. «Essere una sopravvissuta mi consegnava un compito: quello di considerarmi fortunata rispetto a chi aveva trovato la morte dentro una storia come la mia. Dovevo mettermi in testa che tutto quello che mi stava accadendo era comunque rimediabile, in qualche modo. Io ero viva» scrive Lucia. Ma sono troppe le donne che non sono più vive, che non sono più libere di vivere la loro vita.
Lucia racconta di essere nata una seconda volta dopo la sua aggressione: una rinascita che è diventata l’occasione «per fare qualcosa che andasse oltre la paura e le difficoltà», una rinascita con la quale Lucia si è sentita «chiamata a testimoniare il futuro che ci aspetta, come un diritto, a tutte. A tutti», perché «una persona è il segno che lascia». Così Lucia è riuscita a riscattarsi dall’ignobile aggressione subita, scegliendo di non lasciar vincere l’odio bensì di coltivare l’amore, per sé stessa e per le altre donne.
Gino Cecchettin, padre di Giulia, è riuscito a riscattarsi dal suo dolore dando vita ad una fondazione intitolata a sua figlia che possa fare del bene, quel bene che Giulia avrebbe voluto fare con la sua vita. Gino vuole educare all’amore, e vuole partire dai bambini e dalle bambine per cambiare il loro futuro e il futuro del mondo. Gino Cecchettin, come Lucia Annibali, ha compreso qual è la causa della violenza maschile contro le donne e vuole agire per sradicarla.
Nell’udienza veneziana il procuratore ripercorre le ultime ore di vita della giovane Giulia, e poi l’anno che ha preceduto quell’ultimo giorno. Lui ha colto la curiosa coincidenza di questa discussione con la giornata del 25 novembre, ma dichiara fin dall’inizio che non proporrà riflessioni al riguardo, convinto che in questa sede si debba accertare solo la responsabilità individuale dell’imputato. Ricostruisce il rapporto di Giulia con il suo ex fidanzato come un rapporto caratterizzato da una «forte pressione di controllo» di lui verso di lei, che ha trovato in quel 11 novembre 2023 il suo epilogo. L’autopsia ha evidenziato che l’aggressione si è svolta in tre diverse fasi: questo vuol dire che l’assassino ha avuto più di una possibilità per tornare sui propri passi, per desistere dal suo proposito, eppure non lo ha fatto, perché evidentemente era sicuro della propria decisione. O sua o di nessun altro. Neanche di sé stessa. «Ho ucciso la mia ragazza» è la prima cosa che lui dice alla polizia tedesca, quando esaurisce le risorse per fuggire, non prima di aver occultato il corpo di Giulia, non prima di aver cercato di cancellare le prove fisiche e informatiche che dimostrano la sua responsabilità. E perché questo ragazzo ha deciso scientemente di uccidere la sua ex ragazza? Qui sta, purtroppo, il collegamento col 25 novembre che i tribunali si rifiutano di vedere, quella responsabilità sociale che non si sostituisce ma si affianca alla responsabilità individuale del singolo imputato. Lui punisce Giulia per averlo lasciato, punisce Giulia per la sua decisione di libertà, punisce Giulia in quanto donna, perché questo è quello che la società patriarcale ci ha insegnato. Allo stesso modo in cui fu punita la scelta di libertà di Stefania Noce - altra giovane e brillante studentessa siciliana, la cui storia ha parecchie assonanze con quella di Giulia -, allo stesso modo in cui sono state e sono punite decine di donne, in quanto donne. Fin dall’inizio della relazione, lui pretende di monopolizzare il tempo di Giulia, non tollera che lei esca da sola con le sue amiche, non tollera che lei lo superi nella carriera universitaria. Un atteggiamento controllante e possessivo che a Giulia «fa venire la nausea»: «stai calpestando la mia libertà e limitando la mia felicità» gli scrive, utilizzando quei due sostantivi – libertà e felicità – che dovrebbero essere la base della vita di ogni essere umano. «Era talmente cattivo con le parole e con i gesti che mi faceva paura». La paura inizia ad invadere Giulia, mentre il discorso della laurea diventa centrale per lui: «O ci laureiamo insieme o la vita è finita». Quella di lei, naturalmente. Lui non vuole che Giulia pensi alla propria «inutile carriera», «la tua vita la vivi di pari passo con me». Le manipolazioni di lui continuano per mesi, soprattutto quando Giulia lo lascia una prima volta: lui subito le dice di essere cambiato; «Come faccio a credere che tu sei cambiato in ventiquattr’ore?» gli risponde lei. Gli uomini violenti non cambiano, neanche in molto più di ventiquattr’ore ore. Controllo, possesso, paura, sono le tre direttrici su cui proseguono gli ultimi mesi di vita di Giulia. Mentre lui continua a sostenere «noi siamo perfetti», lei replica «mi sono stufata», consapevole perfino che lui «ha idee strane riguardo al farsi giustizia da solo». Non c’è nulla di improvviso nelle azioni che l’assassino di Giulia pone in essere quell’11 novembre, sono tutte elencate in un’accurata lista che ha preparato diversi giorni prima. Alla faccia del tanto amato quanto inesistente raptus di follia. «Dopo la laurea faccio quello che voglio» rivendica lei. Ormai la sua condanna a morte è già stata emessa. È difficile trovare una premeditazione più provata di questa, ammette il procuratore: «è un caso di scuola». Un’uccisione premeditata e crudele. «Immaginatevi ciò che è accaduto» chiede il procuratore alla corte d’assise. «Immaginatevi ciò che è accaduto». E aggiunge l’elemento che è il vero cuore del 25 novembre: lui è un ragazzo qualunque, «un ragazzo che andava in una delle scuole in cui vanno i vostri figli, aveva tutte le possibilità e gli strumenti culturali per scegliere, quelli che sono stati dati a voi e a me». L’assassino di Giulia è uno di noi, è uno dei figli di questa società.
Alla dimensione sociale in cui si colloca l’uccisione di Giulia prova ad avvicinarsi l’avvocato Nicodemo Gentile - difensore di Elena Cecchettin -, ma è una dimensione che alla corte non interessa, anche se nei “motivi a delinquere” di cui parla l’articolo 133 del codice penale, ben si dovrebbe collocare una riflessione sociologica sulla criminogenesi di questi delitti. «La famiglia Cecchettin si ritrova senza colpa ad essere una famiglia di persone offese». Senza colpa. Perché in nessun modo è ragionevole cercare le responsabilità e le colpe delle donne che vengono uccise. E nonostante questo in quella famiglia non c’è rabbia, non c’è desiderio di vendetta, c’è piuttosto la volontà di costruire qualcosa di buono, coerentemente con la bontà di Giulia, perché «il male si combatte con il bene». È l’avvocato Stefano Tigani – difensore di Gino Cecchettin – ad evidenziare che il padre di Giulia ha dimostrato che perfino da un fatto così tragico può nascere un progetto che migliori la nostra società, un progetto che riesca a modificare quel modo di pensare talmente interiorizzato nella nostra storia sociale da risultare invisibile. Giulia è morta nel momento in cui aveva deciso di ricominciare a vivere libera: è questo che non ci viene perdonato in quanto donne. Ed è questo il problema sociale e collettivo su cui dobbiamo lavorare.
Purtroppo siamo circondate da persone che non hanno affatto capito qual è la causa della violenza maschile contro le donne, oppure si ostinano a far finta di non averlo capito. Che proprio il giorno della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin si debba sentir negare l’esistenza del patriarcato e invece propagandare l’inesistente correlazione tra immigrazione e violenza è oltraggioso, prima di essere completamente falso. Che a pronunciare queste oltraggiose falsità sia un alto rappresentante dello Stato è prova della gravità del problema.
Come sarebbe bello se il patriarcato non esistesse più dal 1975, cioè dalla riforma del diritto di famiglia italiano. Se così fosse perché fino al 1981 ancora il codice penale italiano prevedeva il delitto d’onore, punendo l’uccisione di una donna in quanto donna con una pacca sulla spalla? Se così fosse perché fino al 1981 ancora il codice penale italiano prevedeva il matrimonio riparatore come causa estintiva del reato di stupro? Se così fosse perché fino al 1996 il codice penale italiano considerava la violenza sessuale un reato contro la morale e non contro la persona? Se così fosse perché le donne italiane sono state ammesse alle forze militari solo nel 2000? Se così fosse perché la corte costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità dell’imposizione del solo cognome paterno alla nascita solo nel 2016? Se così fosse perché il nostro codice civile fascista impone ancora oggi alle donne sposate l’aggiunta del cognome del loro marito come marchio di proprietà? Se così fosse perché il nostro codice civile fascista impone ancora oggi come parametro di diligenza quello del “buon padre di famiglia”? E perché, se fosse vero che il patriarcato non esiste più, noi donne continuiamo ad imbatterci in discriminazioni in ogni contesto della nostra vita? E perché, se fosse vero che il patriarcato non esiste più, circa cento donne ogni anno in Italia vengono uccise da uomini a loro vicini? Non veniamo uccise dallo straniero nel vicolo buio, veniamo uccise nella nostra casa dai nostri compagni. Non veniamo uccise da uomini pazzi e malati, veniamo uccise dai vostri bravi ragazzi. Chi continua a negare questo o è ignorante o è in mala fede, e non so davvero quale delle due opzioni sia peggiore.
Laura Boldrini, che citando Isabel Allende si definisce “femminista dalla nascita”, ha ritenuto «imbarazzante» l’intervento del ministro dell’istruzione Valditara alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, «in perfetto stile mansplaning il ministro si è permesso di fare una lezioncina dimostrando di ignorare totalmente la complessità del fenomeno della violenza maschile sulle donne e negando la matrice patriarcale». Io, a differenza di Laura Boldrini, non sono femminista dalla nascita, lo sono diventata studiando e mettendo in discussione ciò che quotidianamente mi veniva dato per scontato. È faticoso studiare, è faticoso mettere in discussione quello che ci viene spacciato per ovvio e giusto solo perché “è sempre stato così”. È faticoso, eppure doveroso, se si vuole vivere in questo mondo non come automi ma come esseri umani consapevoli. Elena Cecchettin, che è ben consapevole della necessità di mettere in discussione il mondo e il modo in cui viviamo, ha evidenziato che «se invece di fare propaganda alla presentazione di una fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco e “per bene” si ascoltasse, non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno».
«La violenza di genere è un fallimento collettivo», Gino Cecchettin l’ha capito e l’ha detto. Quando la società italiana tutta riconoscerà questo fallimento collettivo? E quando la società italiana tutta deciderà di agire per porre fine a questo fallimento? Perché avete paura dell’educazione all’affettività? Perché siete contrari che i vostri figli e le vostre figlie vivano una vita libera, pratichino il rispetto, vivano l’amore per qualunque altro essere umano in modo sereno? Di cosa avete paura? Forse avete paura che ammettere la necessità di una nuova educazione obblighi a riconoscere il fallimento collettivo della nostra società? Per quanto tempo ancora volete chiudere gli occhi di fronte alla realtà?
Uscendo dall’udienza veneziana arriva la notizia della condanna all’ergastolo emessa dalla corte d’assise di Milano per il femminicidio di Giulia Tramontano, un’altra Giulia, una giovane donna, futura mamma di un bimbo, uccisa e buttata in un fosso come un rifiuto dall’uomo che diceva di amarla, un altro “bravo ragazzo” della nostra società di “bravi ragazzi”. L’ergastolo ai loro assassini non restituisce la vita alle donne uccise, né ai loro cari quel posto mancante a tavola; è però un segno – non l’unico – che lo Stato può dare alla società per prendere posizione contro il disvalore delle azioni dei suoi uomini, per affermare che quelle azioni non devono appartenere a questa società, per affermare che l’Italia ripudia quelle azioni – uso lo stesso verbo che la nostra Costituzione usa nei confronti della guerra -, per affermare che la violenza maschile contro le donne deve avere fine, per affermare che la libertà delle donne è irrinunciabile per questo Stato.
«Lo spirito di Giulia deve aleggiare in quest’aula» ha detto l’avvocato Gentile. Io non so se lo spirito di Giulia c’era. So però che il suo spirito mi ha accompagnata in questo 25 novembre. Non solo il suo, quello di tante donne uccise da uomini che dicevano di amarle. Così come mi hanno accompagnata le parole delle donne sopravvissute, come Lucia Annibali e Gessica Notaro, che hanno fatto della propria ingiustizia personale un progetto per la società.
«Siamo genitori per sempre», ha detto Gino Cecchettin. Quale mondo volete per le vostre figlie e per i vostri figli?
«Siamo chiamati a scegliere che tipo di persone vogliamo essere» ha detto Lucia Annibali. Voi che tipo di persone volete essere?
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