Gisèle ha deciso di denunciare l’ignobile violenza rendendo pubblica la vergogna, non sua ma di chi aveva violato la sua dignità. Nell’interesse di tutte le donne
Un caso giudiziario del 2024 resta memorabile perché coinvolge il sospetto che il diritto non riguardi le donne.
In Francia, nel piccolo centro provenzale di Mazan, sono stati condannati 5 uomini per bene, giovani o meno giovani, per aver abusato di una donna anziana sedata dal marito e dal medesimo offerta agli stupri altrui. La vicenda nell’anno di grazia 2024 non è la trama di una novella sfuggita al Boccaccio, ma la pubblicistica l’ha già lasciata cadere nel silenzio.
Il caso, scoperto perché il sequestro del cellulare dell’uomo ha evidenziato le registrazioni degli stupri subiti nel sonno dall’anziana dormiente. Provavano inoppugnabilmente fatti che sconvolgevano prima di tutti l’ignara signora, moglie e madre di figli viventi in un ménage tranquillamente “felice”. La scoperta ha portato alla luce il sospetto che, oltre alle ubriacature forzate dei soliti stupratori serali, esistano anche le sedazioni domestiche: una figlia Pelicot - nel famoso cellulare c’era una foto di lei nuda - ha sospettato di essere stata anche lei sedata. E sono venuti alla luce altri casi.
Ma è stata Gisèle Pelicot, anni 72, a decidere di superare il trauma denunciando senza reticenze e falsi pudori l’ignobile violenza rendendo pubblica la vergogna, non sua ma di chi aveva violato la sua dignità. Nell’interesse di tutte le donne.
Per questo la sua testimonianza è un lascito. E, soprattutto, restano i problemi che ha aperto.
Il tribunale ha condannato Dominique Pelicot a 20 anni, gli altri 51 a pene varie e qualche proscioglimento. Lasciando ai giuristi (e alle giuriste) la lettura degli atti e delle sentenze presumibilmente reperibili senza difficoltà, salta agli occhi la diversa concezione dei delitti e delle pene della cultura delle donne, già ampiamente evidenziati dai grandi dibattiti pubblici ai tempi delle leggi sull’aborto, il matrimonio riparatore e la violenza sessuale. Dominique ha chiesto perdono a una moglie “amata moltissimo” riconoscendosi colpevole di tutti i reati di cui era accusato: “avevo una dipendenza, avevo dei bisogni che ho soddisfatto da egoista “sedandola senza farla soffrire”: “sono uno stupratore, io sono come loro”, quelli che la moglie gliela stupravano davvero e che in tribunale cercavano di cavarsela dicendosi convinti che fosse tutta una commedia con il buon accordo della signora. Non stiamo a scomodare Freud per un uomo certamente disturbato che aveva avuto tempo per curarsi ma che ha trascorso una vita nel lavoro e nella società senza ricorrere al crimine tranne che in famiglia. Nel longform di Anais Ginori in Repubblica del 15 dicembre 2023 compariva però la trascrizione di una dichiarazione eccezionalmente grave “volevo sottomettere una donna ribelle”. Senza forzarne la lettura l’ammissione rivela un uomo, tradizionalmente “capo della famiglia” che aveva mal sopportato le libere ragioni della sua compagna, spesso migliori delle sue e vincenti. Non può essere presentata come un’attenuante.
Ma i giudici, soprattutto maschi (il diritto è fondato sul modello unico, come se le donne non avessero dritti propri) che idea di giustizia avevano nel discutere le “misure” della pena? E come hanno registrato le fasi dell’azione penale per scoprire le ragioni dei crimini? A che concetto di famiglia si riferivano? Articoli del codice? Le penalizzazioni sono accettate dalle donne per il loro valore simbolico convenzionale, ma vengono percepite inerti a cambiare il costume perché il soggetto “donna” è accompagnato dallo stigma che ne limita o deforma la dignità di persona. In tribunale la donna è ricondotta alla condizione di vittima e la sua dignità non è risarcibile da un anno di condanna in più o in meno, quando spesso è in gioco la sua parola. Anche per questo rinuncia a denunciare indotta dal pregiudizio, insito nel diritto, che non ne rappresenta l’autonomia.
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