Palestina - Donne a Ramallah, non aderiscono ai partiti e non lottano solo contro l’occupazione israeliana, ma contro tutte le oppressioni
Luisa Morgantini Lunedi, 06/08/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2012
È maggio e a Ramallah, in Palestina, la sera fa ancora freddo. Ho promesso ad alcune giovani donne palestinesi una cena con tagliatelle italiane, nel giardino profumato di gelsomino e bergamotto della casa di Suad Amiry, dove abitualmente abito quando sono in Palestina da sola e non con decine di persone da accompagnare per far loro conoscere la quotidianità dei palestinesi sotto occupazione militare. Suad, architetta e scrittrice, è negli USA ed io, pur sentendo la sua mancanza, vivo la sua casa con agio e mi piace invitare amiche e amici. Mi fa piacere mostrarla alle giovani ragazze e parlare delle donne palestinesi che hanno contato e lottato e che loro non conoscono. Suad, profondamente laica, è stata anche delegata alla prime trattative di Madrid. Nel suo libro Menopausa a Ramallah - realtà ma anche metafora per la fine di un ciclo politico - ha fatto parlare donne, sue amiche, che hanno speso buona parte della vita nella lotta per liberare il loro paese. Un ciclo chiuso, secondo Suad, con la vittoria di Hamas alle elezioni.
Le ragazze che verranno a cena sono della nuova generazione. Con loro ho condiviso in questi ultimi tre anni i gas lacrimogeni, gli strattoni e gli arresti che i soldati israeliani ci riservano durante le manifestazioni contro il muro e l’occupazione nei diversi villaggi della Cisgiordania. Finora ci siamo incontrate nelle case palestinesi o nelle strade di Bili’in, Al Masara, Nilin, Nabi Saleh, Hebron, i luoghi dove i Comitati Popolari per la resistenza nonviolenta palestinese manifestano il Venerdì per riottenere la terra che il governo israeliano ha confiscato per costruire il muro.
C’è un comune interesse ed empatia nel volerci incontrare. Loro sono sorprese che una Parlamentare europea si mostri così alla mano e cucini, persino, oltre a farsi arrestare e condividere le botte. Mi avevano già invitata ad un incontro ed anche ad una cena preparata da loro perché raccontassi della politica estera europea, della mia vita di donna e della mia esperienza in Palestina, visto che ci andavo fin da prima che molte di loro nascessero. Questa sera vorrei che parlassero loro, del coraggio e della forza nel mettere in gioco i loro corpi e le loro vite sfidando soldati armati, vorrei che spiegassero il loro modo di stare nella ribellione nei confronti dell’occupazione militare israeliana, ma anche delle convenzioni sociali palestinesi. Vorrei capire cosa hanno di diverso rispetto alle donne palestinesi delle generazioni precedenti - che pur hanno sempre avuto un ruolo determinante nella resistenza palestinese - sia rispetto alle donne nei campi profughi che alle intellettuali. Nessuna di loro si identifica in un partito e nessuna è disposta a sacrificare un grammo della propria libertà ed autonomia alla lotta di liberazione nazionale, non accettano i due tempi: prima la liberazione nazionale poi la libertà di donne. Questa è una enorme differenza perché, anche ci sono sempre state donne indipendenti, si trattava di casi individuali perché tutte militavano in un partito. Heba è l’unica delle sette ragazze a portare il velo, ma non il grigio vestito islamico; si trucca, indossa jeans strettissimi e il velo sembra volerlo per valorizzare la sua bellezza. E lo porta come sfida verso chi pensa che le donne velate siano tutte sottomesse e relegate nella sfera privata. È stata educata così - dice - ma è diventata una sua scelta. È una blogger, studia all’Università, vive in famiglia ma si è conquistata suoi spazi. Le altre sono identiche a qualsiasi nostra ragazza, anche se nei villaggi non vanno troppo scollacciate. Dicono che si tratta di rispetto delle regole. Tutte in Facebook, si sono ritrovate quando i giovani a Ramallah e a Gaza hanno lanciato il movimento dei giovani del 15 marzo 2011, criticavano l’autorità palestinese e Hamas, chiedevano l’unità e la fine della separazione tra Gaza e la Cisgiordania, rivendicavano la democrazia, si assumevano la responsabilità non solo della lotta contro l’occupazione ma anche del cambiamento politico e sociale in Palestina. Ma poi se ne sono andate, critiche del leaderismo dei loro compagni e convinte che bisognasse partire da sé ed agire in prima persona ma non da sole. Hanno cominciato a partecipare alle manifestazioni nonviolente nei villaggi e nelle città. Adesso si sono organizzate prima con le donne di Nabi Saleh, incontrandosi per progettare e ed agire in modo creativo. A Nabi Saleh i soldati e i coloni non permettono ai palestinesi di raggiungere la loro fonte d’acqua e loro vanno a farci i picnic, ad Hebron la Shuada street è vietata ai palestinesi e loro cercano di passare anche se sono bloccate dai soldati. “La nostra lotta come donne femministe e attiviste non è solo contro l’occupazione, ma contro l’oppressione ad ogni livello - dice Diane - noi chiediamo giustizia, uguaglianza, libertà e questo deve avvenire dentro la società palestinese per potersi affermare anche ad altri livelli”.
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