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Gestire con creatività le situazioni impreviste in un mondo sempre più estremo: l’Antartide docet

Gestire con creatività le situazioni impreviste in un mondo sempre più estremo: l’Antartide docet

Chiara Montanari, ingegnere, capo missione in Antartide, innovatrice in pensiero e azione, è creatrice dell'Antarctic Mindset, meta-strumento per gestire le situazioni complesse

Mercoledi, 16/03/2022 - Ingegnere civile, imprenditrice, esploratrice, innovatrice in pensiero e azione, capo missione in Antartide, nel 2014 ha ricevuto l’Ambrogino d’oro per il suo impegno nell’innovazione e trasferimento tecnologico. Nel 2019 Startup Italia l’ha inserita tra le 150 donne che contribuiscono significativamente all’innovazione del nostro Paese. È autrice di: Cronache dai Ghiacci, 90 Giorni in Antartide (Mondadori 2015), in cui l'Antartide con la sua complessità e gli alti rischi, rappresenta una metafora del mondo contemporaneo. È dell’idea di abolire il sacrificio in quanto tale: realizzarsi equivale a remare contro gli schemi. Conosciamo meglio Chiara Montanari
Cos’è e com’è nato l’Antarctic Mindset? L’esperienza in Antartide mi ha portato a sviluppare un approccio codificato con un filosofo della scienza, Gianluca Bocchi, basato sulle cosiddette scienze della complessità, il pensare complesso: segue il filone di Edgar Morin (ndr, sociologo francese), ma applicato all’organizzazione, al management. La mia carriera in Antartide è cominciata come ingegnere civile, poi mi sono ritrovata a fare il capo spedizione, per cui ho avuto necessità di acquisire dei metodi. Ho seguito vari corsi di addestramento, tra cui il corso di adattamento agli ambienti estremi, tenuti in collaborazione con le forze armate, il corpo medico e quello dei vigili del fuoco e persino con l’Agenzia spaziale europea, che sono utili alla gestione delle situazioni limite, che si presentano in quel continente. Per gestire l’organizzazione in quanto tale, ho fatto un Master in Management al Politecnico di Milano e due anni di ricerca. Non ero ancora soddisfatta, finché non sono arrivata a quella che si potrebbe definire la teoria dei sistemi complessi, ovvero il punto di vista della filosofia della scienza sulla complessità, che mi ha fornito la chiave per gestire con efficacia le situazioni in Antartide. L’Antarctic Mindset (capacità di creare strategie per prosperare nell’incertezza) si potrebbe definire l’acquisizione di una mentalità, un meta-strumento, una presa di consapevolezza utile in un'infinità di situazioni. È la capacità di sviluppare simultaneamente punti di vista diversi e facilitare le interazioni del team. Una logica in forma di dialogo dei saperi, che si combina con il nostro naturale istinto del far fronte alle difficoltà. Questo ci insegna a non subire passivamente l'imprevisto, ma ad accoglierlo e trasformarlo, in modo da sviluppare resilienza. Ora porto questo metodo nelle aziende, per trasformare gli individui che vogliono imparare a gestire con creatività, le situazioni impreviste e complesse. Il mondo sta diventando sempre più simile all’Antartide: sempre più estremo, più imprevedibile, più dislocato nel tempo e nello spazio per quanto riguarda i team, e sempre più multidisciplinare. Esattamente il caso dell’Antartide, luogo mozzafiato, sconvolgente. Nelle basi scientifiche, isolate da tutto, si crea un microcosmo, abitato da persone di lingua, estrazioni e formazioni diverse, ognuna con propri pensieri, emozioni, caratteristiche, che sono chiamate a fare di tutto: dall'auto-produrre acqua ed energia, all’organizzare di missioni di ricerca in zone remote rispetto alla costa. Il motivo che l’ha portata in Antartide? Come ingegnere civile ho fatto una tesi di laurea sulla sostenibilità riguardante un impianto di riscaldamento ad alta efficienza che simulava le condizioni di una base in Antartide. Il progetto è talmente piaciuto, che hanno deciso di realizzarlo. Avevo avuto dei contatti con l’organizzazione che si occupava delle spedizioni e dopo i due anni che sono serviti a metterlo a punto, mi sono ritrovata lì. Mi sono talmente innamorata dell’Antartide, da inventarmi un mestiere per poterci tornare, cosa avvenuta ben 5 volte. Dopo aver realizzato l’impianto, poiché non avevano più bisogno di me, che ero una neofita, appena uscita dall’università, ho deciso di inventarmi l’interface manager. Eravamo all’inizio degli anni Duemila, non era ancora un mestiere codificato: ho convinto il direttore generale che avevano bisogno di questa sorta di mediatore culturale, tra i vari gruppi di ricerca che operavano lì e la parte logistica e tecnica. Nel Plateau Antartico era in corso la costruzione della Concordia: una delle 5 stazioni di ricerca che si trovano all’interno del continente, in questo luogo estremo. Una base molto più sfidante di quella in cui avevo realizzato l’impianto di riscaldamento, che invece era ubicata sulla costa. Il Plateau Antartico, è il luogo più freddo del pianeta, meno 50 gradi in estate, meno 80 in inverno, 4.000 m di altitudine: tutta la sfida della logistica era focalizzata sulla costruzione della base. Intanto arrivavano anche i ricercatori: si stava creando una sorta di mancato presidio delle interazioni tra gli strumenti, che essendo molto complessi, interagiscono tra di loro e possono fornire interazioni negative. Da allora in poi, sono stata nominata capo spedizione per l’Italia, la Francia, il Belgio, le spedizioni internazionali. Le temperature non sono state dunque un ostacolo... No, direi di no (risponde decisa e un po’ divertita). Ha studiato Ingegneria ed Economia: questione di indole o una formazione mirata? Ho studiato Ingegneria, poi ho fatto un Master, tipo un MBA, specifico per lo sviluppo di programmi di ricerca presso la Business School del Politecnico di Milano e poi 2 anni di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale. Lo studio dell’Ingegneria è nato per sbaglio, non ero contenta della scelta: a 18-19 anni ero appassionata a molte cose: non ce n’era una che prevalesse sulle altre. Sapevo di dover studiare, così, piuttosto che Architettura, ho scelto Ingegneria con molta leggerezza, perché dava maggiori sblocchi professionali. L’ho fatta senza problemi, ma non ero felice perché le materie erano trattate in modo arido. Lo ripeto sempre nei convegni sulle STEM: non si può dire alle ragazze di iscriversi alle materie scientifiche perché possono essere molto poco appassionanti, dato che sono ancora appannaggio di una mentalità molto fredda e calcolatrice che, tra l’altro, è dominante ovunque nella nostra società. Il tema però è che entrare in quei mondi con un sentire molto differente, può essere un grande vantaggio: quando me ne sono resa conto, sono riuscita a fare delle innovazioni con grande facilità, in quanto portatrice di un punto di vista diverso. Questa è a mio avviso la chiave per l’innovazione: per esempio, come donne in un ambiente nettamente maschile, si è portatrici di una diversità, e semplicemente con la propria mentalità, si porta un punto di vista diverso che contamina e produce inevitabilmente una novità. Come incentivare l’interesse delle donne verso la scienza? Io lavorerei nel togliere, più che nell’incentivare: toglierei la paura delle STEM, rendendo le ragazze consapevoli che nel momento in cui entrano in un sistema possono cambiarlo dall’interno. Troveranno di certo molte situazioni sfidanti, ma proprio per il fatto di trovarsi lì, loro potranno cambiarle. E intendo questo, non tanto in termini di incitarle a “dare battaglia” a ciò che non va, ma piuttosto a spronarle ad usare la loro creatività per forgiare qualcosa di nuovo, esattamente come lo desiderano. È sacrificante a livello personale vivere da scienziata? Non credo: l’idea della disciplina intesa come sacrificio, per me è qualcosa di respingente. Ciò che ho fatto, l’ho fatto perché avevo voglia di farlo: quando mi hanno proposto di andare in Antartide sono stata felicissima, un’avventura, wow! Quando mi hanno detto che ci dovevo tornare: un’altra entusiasmante avventura. E se si ha una famiglia, dei figli si riesce a conciliare? Si riesce. Quella sui figli è una domanda che viene sempre fatta alle donne e mai agli uomini, è un discorso privato, individuale. Non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti gli stessi tipi di limiti, ci sono persone che si limitano quando ci sono dei figli. Una mia collega francese ha continuato ad andare in Antartide da quando erano piccolissimi fino ad ora, che hanno quindici anni. Non dobbiamo continuare a far passare l’idea di dover scegliere tra la famiglia e la carriera, perché’ questa “idea della scelta”, ci fa sentire inadeguate in qualsiasi caso! Bisogna cambiare questa narrativa, che ci schiaccia. Se si ha passione e si lavora sodo, non si sente nemmeno la fatica, abolirei pertanto l’idea del sacrificio in quanto tale: realizzarsi equivale a fare ciò che ci fa stare bene, e se questo significa remare contro gli schemi, si fa senza problemi. Pro e contro di questa professione I contro sono l’idea della separazione della professione dalla vita, io ho sempre fatto scelte che avevo voglia di fare. Quando ero all’università e mi avvicinavo alla laurea, ho sofferto all’idea di fare l’ingegnere, immaginandolo un ruolo totalmente lontano da me. Poi per fortuna c’è stato l’Antartide e a quel punto ho interpretato la mia professione al massimo. Quando si scelgono dei percorsi fuori dall’ordinario, non è facile: per fortuna ho sempre avuto persone intorno che mi sostenevano. All’inizio non è stato facile intraprendere una carriera fuori dai percorsi ordinari perché la società intorno ti fa credere che stai giocando. Per fortuna le cose si sono costruite passo dopo passo, perché non c’è una scuola per fare il capo spedizione, bisogna inventarsela. Alcuni anni fa ho fondato la Complexity aware, società di consulenza che si occupa dell’Antartic Mindset: ho capito di poter essere utile agli atri per sbloccarli dai loro momenti di impasse, anche grazie alla narrazione di esperienze estreme. Ho compreso che il percorso che avevo creato mi ha aiutato a sbloccare ciò che mi tratteneva dal fare ciò che ritenevo giusto per essere più felice. Una sofferenza interiore positiva, mi aveva fatto capire che la classica carriera da ingegnere non mi si adattava, portandomi alla ricerca di altro. Grazie a ciò, ora insegno, anzi non è il termine giusto, non mi piace. Direi piuttosto, aiuto, oriento le persone, i gruppi, le organizzazioni a giungere allo stesso tipo di consapevolezza. Che messaggio darebbe a chi volesse intraprendere la professione di scienziata? Non lo so (ride) perché non mi reputo una scienziata. Direi di seguire la passione, esplorare qualsiasi campo, qualsiasi percorso si senta dentro anche se dovesse apparire strano. Direi di seguire il proprio sentire interiore, anche se a volte ci muoviamo verso qualcosa in maniera istintiva, senza razionalizzare. È importante aver fiducia in quel tipo di sensazione, magari con prudenza, ma è importante lasciarsi andare all’esplorazione con passione e grande autenticità: un’esplorazione superficiale non aiuta. Questo intende quando dice di essere un’esploratrice della vita? Esatto, sì. Quella di life explorer, è l’unica etichetta che riesco a tollerare, perché, è evidente, siamo tutti esploratori della vita!
Come si svolge attualmente la sua vita? Vivo tra la Toscana (ndr, terra d’origine: è nata a Pisa nel 1974) e Milano, dove mi sposto per lavoro. Sono consulente per le organizzazioni sull’Antarctic Mindset e collaboro anche come interface manager al progetto astronomico Cerenkov Telescope Array Observatory (CTAO), una delle più grandi iniziative planetarie di esplorazione delle alte energie dell’universo. Sono molto felice di poter utilizzare gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione per lavorare anche in smart working: riesco a seguire gruppi di ricerca in tutte le parti del mondo, gestendo il lavoro da casa. La nostra curiosità nel ricercare è lo strumento che abbiamo a disposizione per operare in maniera più consapevole, questa emozione che ci muove e ci spinge per esplorare percorsi inediti. Nei periodi tranquilli possiamo consentirci di prendercela comoda, persino di distrarci, ma in tempi di crisi, la nostra attenzione è fondamentale. Questo è un momento di grande sfida per l’umanità, e può diventare una grande occasione per risvegliare le nostre coscienze all’uso degli strumenti in maniera più intelligente di quanto non stiamo facendo e abbiamo fatto finora.
Floriana Mastandrea

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