Una breve memoria su Anna Maria Mozzoni, nel centenario della scomparsa
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Venerdi, 27/03/2020 - Strana sorte, quella di Anna Maria Mozzoni, di cui sarà ben difficile - nella guerra al Covid 19 che si sta combattendo - celebrare come dovuto il centenario della scomparsa. Una situazione analoga si produsse anche quando morì, nel giugno 1920 a Roma: solo ‘L’Avanti’ ne diede notizia qualche giorno dopo. Nell’Italia sommersa dai drammi aperti dal primo conflitto mondiale, la memoria del suo ruolo civile e politico era quasi cancellata e così Anna Maria Mozzoni si spense oscuramente, nella disattenzione generale, mentre dagli anni ’60 dell’Ottocento era stata la più importante figura del primo femminismo italiano.
Era nata a Rescaldina, vicino a Milano, nel 1837, da una nobile famiglia di condizioni non più agiate, dove però aveva trovato (nonostante il collegio gretto e reazionario dei primi anni) gli stimoli fondamentali della sua formazione grazie agli studi scientifici del padre e soprattutto grazie alla sensibilità di un ambiente politicamente orientato in senso anti-austriaco, ma non filo-piemontese. Grande lettrice, Annamaria da autodidatta spazia dagli illuministi, ai romanzieri del suo tempo, ai filosofi romantici, tra cui in particolare Fourier, il primo pensatore ad aver sostenuto che la condizione delle donne può essere assunta come criterio di valutazione di una società.
Nella prima fase della sua attività pubblica Mozzoni si avvicina al mazzinianesimo, quale unica ideologia politica del tempo che sosteneva una chiara visione dell'emancipazione femminile, anche se non aderì mai completamente a nessuna delle formazioni cui si avvicinò: non accettava che la ‘questione femminile’ fosse considerata, più o meno apertamente, come semplice corollario di altri obiettivi politico-ideali, quali la repubblica per i mazziniani o, più tardi, il potere del proletariato per i socialisti. Così, pur firmando importanti contributi su un organo mazziniano come "La Roma del popolo", criticherà esplicitamente le donne dell'area, perché a suo avviso inclini a sostituire l'autorità di Mazzini a quella del papa.
Le sue prime prese di posizione risalgono agli anni '60, nella fase in cui -dopo l'Unità- lo stato liberale andava formulando le norme che segneranno la minorità civile e politica delle italiane fino al ‘900: dapprima, con Un passo avanti nella cultura femminile (1864) affronta la questione dell’istruzione come parte di un progetto generale di emancipazione, sottolineando l’importanza di non confinare la formazione culturale femminile in luoghi separati e a livelli inferiori. Ne La donna in faccia al nuovo codice civile (1865), poi, sottopone a esame critico le norme del Codice civile unitario in materia di cittadinanza femminile: in primis l'istituto dell’autorizzazione maritale, che sanciva la minorità della donna sposata impedendole di gestire autonomamente anche i beni personali, e che significava di fatto la negazione degli stessi principi di uguaglianza alla base dello stato nato dal Risorgimento.
Traduttrice del noto The Subjection of women subito dopo l’uscita in Inghilterra, negli anni '70 e '80 è una delle protagoniste della campagna per l'abolizione della regolamentazione statale sulla prostituzione, insieme a quel nucleo di intellettuali e insegnanti che si riuniva attorno a Gualberta Beccari e al suo giornale "La donna": il più importante organo del primo femminismo, dove la Mozzoni scriveva dal '68 le sue ‘Lettere lombarde’, emergendo progressivamente come la principale esponente del movimento delle donne nel nostro paese. Con la sua autorevolezza è promotrice di tutte le principali campagne a favore del diritto di voto delle donne nell'Italia liberale, intendendolo non solo come un diritto negato, ma come il simbolo dell'autonomia e della pienezza della cittadinanza cui mirare. Per la prima petizione nazionale del '77, avviata sempre in collegamento col periodico "La donna", scrive un libello sul voto politico delle donne di cui rimangono paradigmatiche le analisi sulla concezione femminile del tempo: "Avete finito di menare il can per l'aia chiamandoci angioli del focolare e regine della famiglia. Tutta questa lirica (…) si risolve a fatti in un vero musulmanismo con frasario cristiano".
Anche la ‘Lega promotrice per gli interessi femminili’, nata agli inizi degli anni ’80 e che fino all’età giolittiana rappresentò l'unica struttura organizzata del movimento italiano, fu una sua creatura: organismo interclassista nei suoi obiettivi ma con una sezione di lavoratrici al suo interno (l’Unione delle lavoranti), con programma politico di grande lungimiranza e diviso in decurie, per dare la possibilità alle iscritte di mantenere segreta la propria identità. Nell'84 scrive un appello Alle ragazze in cui è contenuta la sua prima dichiarazione di affinità al socialismo per l'ideale legame tra le due rivoluzioni, quella femminile e quella dei salariati. Con la sua ‘Lega promotrice’ aderisce così al Partito Operaio Italiano, ma non al Partito Socialista che nacque nel '92. Sintomatico del suo rapporto col PSI è il conflitto che negli anni di passaggio al nuovo secolo la contrappone ad Anna Kuliscioff in materia di tutela del lavoro femminile. La Mozzoni sosteneva che tale tutela, riconosciuta e sancita per legge, nascondeva la volontà di garantire i lavoratori dalla concorrenza delle lavoratrici, rese economicamente più costose con tale norma, e in generale la propensione a mantenere le donne in una posizione di minorità sociale e politica. Il Psi e la Kuliscioff l’accusavano a loro volta di esprimere il punto di vista delle donne borghesi, ma certo non riuscirono facilmente a spiegare perché, nella discussione sulla legge, lasciarono cadere la richiesta di parità salariale. Così il necrologio dell’’Avanti’ del 18 giugno 1920, a quattro giorni dalla morte, poteva ricordarla con una certa freddezza come “se non la prima, certo una delle più geniali assertrici dei diritti femminili”.
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