Poesia - Un percorso di scoperta del femminile e di coesione fra natura ed essere umano
Benassi Luca Sabato, 27/02/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2016
Ci sono libri di poesia che si aprono e si chiudono come un fiore nell’arco di una lettura, offrendo la dimensione di un racconto, di un pensiero, di una vita. Non sono ‘raccolte’, perché non raccolgono nulla, non mettono insieme testi solo perché siano sufficienti a farsi pubblicare; sono invece libri necessari, cresciuti come un organismo vitale, dove ogni parte, ogni silenzio, ogni parola appaiono essenziali. È questa una caratteristica delle opere di Francesca Perlini, la cui densità è frutto di una ricerca umana e spirituale, ancor prima che poetica a letteraria. Perlini vive e lavora a San Costanzo (PU), ha esordito con “Prima di partire” (Sigismundus, Ascoli Piceno, 2013), per poi pubblicare, nel 2015, “Dire casa” (Arcipelago itaca Edizioni Osimo AN). Si tratta, dunque, di una poetessa, parca, attenta a distillare le esperienze, le maturazioni, gli accadimenti dell’esistenza per farne poesia. Il libro del 2015 è diviso in due sequenze, diverse dal punto di vista stilistico e della lunghezza dei testi, ma unite in un percorso sistematico che si apre con la scoperta del femminile e si chiude in una salda coesione fra natura ed essere umano. È un testo dalle venatura iniziatiche («se mi perderò -e mi perderò-/ chiamerò un nome e/ la terra su cui avrò posato l’ultimo piede/ sarà il primo passo nel posto giusto./ e quando i corpi s’incontreranno nel loro limitare/ i canti verranno all’unisono cantati per noi»), dove entrare nella casa del corpo diventa scoperta della propria natura generativa, capace di donare la vita e farsi terra madre. La prima sezione è intitolata “Gonne”, ed è composta da testi brevi, frammenti sapienziali dove si tessono, come la stoffa di una gonna, corpo e spirito in una dimensione corale, quasi si chiamassero a raccolta le donne, le madri e le figlie nel transitare dell’esistenza. La seconda sezione reca il titolo “l’amore non si immagina si abbandona” e riporta come sottotitolo “sposalizio tra l’umano e la natura più semplicemente fra me e il bosco”. Questa sequenza ha un andamento dialogico che ricorda il Cantico dei Cantici, nel quale la femmina-donna si rivolge al maschio-albero e viceversa, in un tumulto dei sensi fino allo sposalizio finale, di fronte alla schiera del bosco, dove l’essere umano sembra congiungersi e trasformarsi in natura, in un rinnovato e profondo equilibrio primordiale, per accogliere il seme della vita pronto a farsi germoglio.
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