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Fotografare i disturbi alimentari

Fotografare i disturbi alimentari

Annette Schreyer, con il suo lavoro denso di umanità, ci aiuta a guardare in un modo nuovo ai disturbi alimentari

Sabato, 24/12/2011 -
La rassegna “Shades of women”, curata da Ilaria Prili al Teatro Due di Roma mi ha completamente appassionato. Le fotografe, in gruppi di tre a serata, presentavano i loro lavori, proiettandoli in un mega schermo, accompagnate da attori, cantanti, musicisti, realizzando così una perfetta commistione di arti che teneva alta l’attenzione del sempre numeroso pubblico. C’è stata una fotografa però che con il suo lavoro mi ha conquistato più delle altre. Si tratta di Annette Schreyer, classe 1974, nata a Monaco di Baviera, laureata in drammaturgia, letteratura inglese e storia dell‘arte, che scopre nel 2001 una grande passione per la fotografia. E’ arrivata dunque in Italia con una borsa di studio della Comunità Europea e adesso vive tra Roma e Monaco, pubblicando sui più importanti magazine italiani ed esteri. Le sue immagini hanno ricevuto diversi riconoscimenti internazionali e ha esposto in Germania, Italia, Inghilterra, Spagna e negli USA.. Il progetto che ha presentato durante la rassegna al Teatro Due, riguarda i disturbi alimentari. Annette ha lavorato per diversi mesi a fianco dell’equipe medica nel centro di Villa dei Pini, a Firenze, ottenendo così l’autorizzazione a fotografare le ragazze (e anche qualche ragazzo) affette da bulimia o anoressia. In tutti i suoi lavori, Annette si concentra sul ritratto e sulle storie di vita nella contemporaneità fortemente legate al sociale. Le ho chiesto di raccontare a Noidonne com’è nato e come si è sviluppato questo progetto straordinario con le pazienti di Villa dei Pini, e lei ne è stata entusiasta.


Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a chiedere alle cliniche di lasciarti fotografare le ragazze? Sapevi avresti incontrato molte persone ostili?

Nel mio mestiere mi capita molto spesso di scontrarmi contro delle barriere, soprattutto all’ inizio di un nuovo lavoro. Sono tantissime le persone che hanno difficoltà a farsi fotografare, per motivi di privacy, per una scarsa autostima, o semplicemente perché non hanno voglia di partecipare ad un progetto di cui non riescono a comprendere bene lo scopo finale. Naturalmente, questa difficoltà è ancora maggiore quando il mio lavoro si concentra su tematiche e argomenti legati ad alcuni tabù che sono espressione della nostra società. C’è stato un momento in cui ho avuto la netta percezione che il tema dei disturbi alimentari fosse diventato un argomento centrale del nostro tempo, quasi fosse “ nell’aria”. Ho sentito, quindi, la necessità di esplorarlo con il mio mezzo, la fotografia. Una necessità che, per mia fortuna, non è legata ad una esperienza personale con la malattia. Anzi, avevo appena una conoscenza superficiale delle problematiche specifiche a questo tema, e mi ci sono avvicinata con la stessa attenzione che metto in altri lavori, senza “proteggermi” particolarmente. Pur essendo consapevole che sarebbe stato difficile entrare dentro una comunità, dopo tre mesi di porte chiuse in faccia ero sul punto di mollare. Poi ho avuto modo di conoscere una dottoressa giovane che lavora in una clinica di Firenze, e che ha riconosciuto le potenzialità, anche terapeutiche, della fotografia. Nel suo gruppo si lavorava sull’immagine corporea, ed era lì che avremmo potuto inserire il mio progetto: la malattia altera la percezione del proprio corpo e fa sì che anche l’immagine che si riflette nello specchio risulti “distorta”. Molte pazienti arrivano a non riuscire a guardarsi in fotografia, non sopportando più l’immagine di se stesse.



Come hai vissuto con le ragazze durante il periodo della loro terapia? che tipo di reazioni suscitavi in loro? Si confidavano con te? Si fidavano?

 

Prima di fare le prime foto sono passate molte settimane in cui mi sono fermata a Firenze solo per farmi vedere e partecipare al gruppo, senza chiedere nulla alle ragazze (parlo al femminile, ma devo dire che, all’interno del mio progetto ho fotografato anche dei pazienti maschi. Sono una percentuale minore rispetto alle donne, ma è comunque una realtà in sensibile aumento). Lentamente alcune pazienti si sono interessate al mio lavoro, e così ho cominciato a spiegare l’idea che avevo in mente: mettere a disposizione il mezzo della fotografia per indagare sulla propria immagine. C’era molta resistenza, perché molte pazienti percepivano il mio progetto come un qualcosa di voyeuristico. Ero un’intrusa. Ho dovuto imparare il linguaggio che si usa nelle cliniche e rispettare le regole. Insieme alla dottoressa abbiamo cercato di fare capire che il mio progetto non si limitava a fotografare solo i corpi magrissimi, ma che l’ esperimento era aperto a tutti quelli che soffrivano di un disturbo alimentare e che avevano il coraggio di confrontarsi con la propria immagine. Ho guadagnato la loro fiducia a poco a poco. Alcune hanno chiesto di essere fotografate con la presenza della dottoressa, altre hanno preferito l’intimità di una seduta con me solamente. Ognuna di loro ha scelto insieme alla terapeuta quale parte del corpo avrebbe voluto vedere nelle foto. Ma c’era anche chi sentiva il bisogno di rivedere semplicemente il proprio sguardo. La dottoressa ha sempre mantenuto il controllo di tutto: dal primo colloquio con le ragazze, fino alla scelta delle foto da mostrare a loro.



Cosa ti ha lasciato questa esperienza? e cosa pensi di aver lasciato tu a loro?

Per me questo progetto è stato sicuramente tra i lavori più coinvolgenti: fa parte di quelle esperienze per cui vale la pena essere fotografa. La macchina fotografica, quando viene accettata, ti porta a conoscere gli aspetti della vita più differenti, ti dà accesso alle case della gente e ti fa entrare in confidenza con delle persone le cui storie altrimenti non avresti mai potuto conoscere. E si impara tanto. Spesso i racconti dei soggetti che fotografo mi toccano profondamente. E poi succede che durante l’atto di fotografare si crea una sorta di connessione, una magia tra il soggetto e il fotografo, una sensazione che va oltre la soddisfazione di avere ottenuto una buona fotografia. Nel caso del lavoro nelle cliniche, questa magia ha avuto una dimensione ancora più particolare: il momento delle foto è stato un passo importante nel percorso delle ragazze - gli è costato tanto - e quindi è stato vissuto con un’ intensità fortissima, che ho sentito anch’io. Nessuno, però, poteva sapere se l’effetto di quell’ esperienza potesse avere un’ influenza anche sul percorso della guarigione delle pazienti. Il momento più intenso è stato quello in cui si guardavano le foto insieme al gruppo. Un momento molto “forte” da vivere per le ragazze, e di conseguenza lo è stato anche per me. Molte si sono messe a piangere, e non si sono più riconosciute. Ma le reazioni più sorprendenti mi sono arrivate dopo un po’ di tempo, quando le ragazze mi hanno mandato delle lettere in cui esprimevano i loro pensieri sul lavoro fatto insieme, ringraziandomi per l’opportunità che gli abbiamo dato. Mi dicevano che erano state capaci di vedere delle cose che non erano più in grado di riconoscere. Avevano visto il malessere che si esprime nelle forme tormentate del corpo e nello sguardo spento. E però, a volte, anche la bellezza che trasmette un corpo morbido e armonico.

Quanto l'arte, e in particolare la fotografia, possono aiutare la donne a staccarsi ed emanciparsi dagli stereotipi di bellezza e avvenenza che ci vengono costantemente imposti?

Se la forza dell’arte è anche quella di invitare a riflettere, o anche solo di attirare l’attenzione su determinate problematiche della nostra vita, allora gioca un ruolo indispensabile anche nell’universo femminile. Siamo noi artisti che dobbiamo essere consapevoli per primi delle potenzialità del nostro lavoro. Senza dubbio un’immagine ha una forza incredibile sulla nostra percezione del mondo, può determinare addirittura lo sviluppo di un nuovo modo di vedere e concepire la realtà che ci circonda, e contribuire a far nascere nuove tendenze di massa. Nel corso della mia vita professionale, ad esempio, ho sperimentato che un ritratto ben riuscito può avere un’influenza enorme sull’autostima di una persona, modificando addirittura la coscienza di se stessi. L’argomento dei disturbi alimentari è troppo complesso per pensare di risolverlo semplicemente cambiando alcuni degli stereotipi legati al concetto di bellezza, perché la malattia è comunque espressione di un malessere interiore. Nonostante questo credo che, se il canone della bellezza femminile prevedesse delle forme meno androgine, e se di conseguenza le immagini alle quali siamo esposti continuamente mostrassero dei corpi più reali, una parte della pressione sulle ragazze potrebbe diminuire.

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