Lunedi, 26/05/2014 - Continua fino all’8 giugno la bella mostra sul cappello da signora presso Palazzo Pitti a Firenze: Il cappello tra arte e stravaganza, realizzata a cura di Simona Fulceri e Katia Sanchioni. Il cappello da donna lo percepiamo come un dettaglio del modo di vestire ormai in disuso, ma in tempi andati il coprirsi la testa era una consuetudine obbligatoria. Le matrone romane sono ritratte sempre con un velo sul capo, poi l’evoluzione della tecnica della produzione di cappelli è evoluta, e noi donne abbiamo cominciato ad avere i nostri cappelli, sostitutivi del velo o del fazzolettone portato ancora dalle nostre bisnonne.
Solo i quadri storici ci ricordano come essi fossero e come fossero adornati; ora finalmente ci si è resi conto della sua importanza nell’abbigliamento femminile nel corso dei secoli e la Galleria del Costume di Palazzo Pitti ha voluto farli conoscere al grande pubblico; un pubblico così grande che la mostra è stata prorogata di un mese.
Sono poco meno di 150 pezzi: dal cappello del figlio quindicenne di Cosimo de Medici, fino ai cappelli disegnati su richiesta specifica della Galleria del Costume.
La prima cosa che viene in mente quando ci si muove tra le vetrine in cui sono esposti è: “.....ma io con il cappello sto male, figurati se mi mettessi un cappello del genere...”, ma al terzo cappello di inizio novecento o fine ottocento si sente che alla mostra manca qualcosa. Manca uno specchio e la possibilità di provarseli; ma provarseli tutti, perché dopo un poco ci si accorge che non sono un abbigliamento, ma un divertimento da indossare. All’inizio del secolo scorso, era quasi d’obbligo che fossero adornati di piume. La piuma ne determinava la preziosità. Le piume o le penne di fagiano erano per cappelli di basso pregio, ma la pernice, il pavone, lo struzzo od altro uccello esotico facevano crescere l’invidia di chi non poteva permetterseli. Poi arrivò Coco Chanel, che non abolì il cappello – cosa impensabile – ma lo rese più funzionale. Sparirono le piume e le penne, si usarono mille tessuti diversi, si inventarono fogge da pomeriggio, da sera e da mattina: il tocco, la cloche,....il tamburello.
Nella mostra si cammina e cammina tra le 15 sale, affollate di donne che hanno lasciato i loro compagni ed amici nell’atrio – “...aspettami qui, tanto faccio presto...” – e di uomini che entrano con l’intenzione inutile di sollecitarle ad uscire .
C’è una bacheca che va menzionata su tutte: i cappelli del Ruwanda. Sembra incredibile, ma nel Ruwanda esiste una paglia più fine della famosa paglia del cappello di Firenze, e finalmente si vede una foto in cui vi sono mani che lavorano la paglia e mani che danno la forma al cappello.
Perché le mani sono le grandi assenti della mostra: le mani che creano i cappelli.
Se una modista o un cappellaio leggerà queste righe, si segnali, perché non si può tacere il lavoro artigiano, che non è scomparso, ma solo occultato, messo come dietro ad un vetro opalescente.
Le cucine dei ristoranti sono diventate visibili dietro grandi vetri trasparenti, che hanno sostituito i muri e gli scantinati in cui erano relegate. E perché l’artigianato delle mani delle modiste e dei cappellai non deve essere mostrato?
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