Vivere con la fibrosi cistica - Riscrivere l’esistenza ogni giorno sperando che la ricerca trovi il rimedio. La storia di Claudia Rinaldi, presidente di FFC Onlus di Ferrara
Camilla Ghedini Domenica, 07/04/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2013
Ha 37 anni, un fisico invidiabile, gli occhi azzurri che brillano. Ha i tratti gentili di chi sembra muoversi con levità, senza alcun peso, o pensiero, che non sia mostrare la propria esteriorità. Claudia Rinaldi, 37 anni, ferrarese, è bella, molto bella, di una bellezza che non sembra appartenere a chi è malato, perché sembra un diritto acquisito di chi è in salute, di chi può invecchiare, di chi un giorno, sfiorito dall’età che avanza, potrà guardare le proprio foto e ricordarsi del grande dono ricevuto dalla vita. E invece per Claudia non è detto che sarà così. Affetta da fibrosi cistica, lei riscrive la sua esistenza ogni giorno, con un coraggio così lontano dalla retorica da fare apparire banale ogni domanda, ogni riflessione, ogni augurio. Lei te lo dice subito che l’aspettativa di vita media è di 40 anni. Lei ti schiaffa in faccia “che noi siamo come gli yogurt, abbiamo una scadenza”, che ‘rimandano’ assumendo ogni giorno quintali di medicine, prima di mangiare, dopo aver mangiato, tra un pasto e l’altro. E tu che l’ascolti fai i conti, e non dici nulla, ma lei sa che mentalmente stai ripetendo “meno tre”, ma te lo tieni per te, quasi fosse un segreto, che tale non è. Eppure, quella voce squillante, intervallata da quei piccoli colpi di tosse che ne dichiarano la vulnerabilità, fanno stare meglio l’interlocutore. Mentre scriviamo Claudia è in ospedale, a Rovereto. Quando l’abbiamo interpellata per l’intervista, l’idea era quella di parlare della legge 40 all’indomani della bocciatura, lo scorso 11 febbraio, da parte della Suprema Corte di Strasburgo, del ricorso presentato a novembre dal Governo italiano, che aveva impugnato la sentenza con cui Strasburgo aveva dato ragione, nell’agosto 2012, a una coppia di coniugi - entrambi portatori sani di fibrosi cistica - che volevano accedere alla Fivet e avere così un figlio ‘sano’. Si è partiti di lì, poi chiacchierando è venuto fuori anche altro. Come ad esempio che nonostante parliamo di una malattia ancora senza cura, che colpisce 1 bambino ogni 2500/3000 sani; nonostante un tempo non si superasse l’adolescenza; nonostante oggi, “per fortuna”, qualità e aspettative di vita siano aumentate e siano sempre di più i quarantenni che scampano la morte; nonostante tutto questo nei nosocomi non ci sono spazi ad hoc. Tranne pochi casi sparsi sullo Stivale, Verona in primis, chi ha la fibrosi cistica viene ricoverato in Pediatria, perché la ‘sanità’ non è stata al passo coi progressi della ‘ricerca’. “Io mi accontenterei di andare in Geriatria - ironizza Claudia - in Medicina, in Pneumologia, è imbarazzante questa situazione. Giro con la mascherina e mi sento a disagio. Le mamme, giustamente, mi guardano male, timorose che io attacchi qualcosa ai loro piccoli. Semmai è il contrario, però non è colpa loro, è proprio che ‘sta cosa non va”. Aggiungiamo che in Italia pende la spada di Damocle del regolamento Balduzzi, che se applicato andrà a spolpare le strutture ospedaliere territoriali di numerose specialità (ridimensionate in base al bacino di utenza), ricalibrando il livello dei nosocomi.
E per chi, come Claudia, ha un problema ‘importante’ ed soggetto a stati di emergenza, il rischio di trovarsi senza punti di riferimento è reale. Claudia è la delegata ferrarese della FFC Onlus (Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica, con sede a Verona), di cui è vicepresidente e di fatto testimonial l’imprenditore Matteo Marzotto. Sente il suo ruolo e ha ben presente che non parla solo per sé, ma per tutti, per chi sta meglio e per chi sta peggio, per chi la pensa come lei e per chi non la pensa come lei, “perché le sensibilità sono tante e diverse”. Dal letto d’ospedale spera che sul fronte della legge 40 si muova presto qualcosa, che si colga l’occasione per adeguarsi alla carta europea prevedendo l’accesso alla pma (procreazione medicalmente assistita) a tutte le coppie fertili che possono trasmettere malattie genetiche. Claudia punta il dito sull’incoerenza, nel nostro ordinamento, tra la legge in questione (che vieta diagnosi pre-impianto) e la 194 sull’interruzione di gravidanza. Teme che rimanga tutto fermo, che non se ne parli fino al prossimo caso eclatante. Lei non entra nell’intimità altrui, si limita a spiegare il perché le cose non possono andare avanti così. “È importante che vi sia la possibilità di esaminare gli embrioni ed impiantare solo quelli sani, o al massimo i portatori sani. Io nutro un profondo rispetto per chi, sottoponendosi a diagnosi prenatale e scoprendo così che il proprio figlio sarà malato, decide di non abortire. Ma ne ho altrettanto per chi non se la sente”. E se le chiedi qual è il confine tra il diritto ad essere genitori e i limiti imposti dall’etica ti risponde che “stiamo parlando di salute, non del colore degli occhi di un nascituro. Perché posso abortire un figlio, anche sano, in caso di gravidanza indesiderata, e non posso non impiantare un embrione di un figlio malato? Cosa faccio? Lo impianto e poi lo abortisco? No, le cose devono cambiare”. Nelle parole di Claudia, che ha rinunciato all’idea di essere mamma e di rendere papà il marito Lorenzo, suo compagno d’avventura, “perché non voglio sfidare la sorte lasciando un compagno giovane ed un bimbo piccolo” non c’è mai astio. Possibile rimanere sempre così lucidi, sereni, non avercela con la sorte? “Ho momenti di sconforto, come ora, che per un’influenza sono in ospedale. Ma non posso avvilirmi, perché ogni giorno ci sono scoperte nuove”. E lei, che di recente ha concluso una sperimentazione di cui si è assunta la completa responsabilità, cita le ricerche fatte da Roberto Gambari, docente di Biochimica alla Facoltà di Farmacia di Ferrara e scopritore, con la sua équipe - in collaborazione con Verona - della Trimetil Angelicina, la molecola che potrebbe portare alla cura della malattia. “Prima o poi ci sarà un farmaco, che magari non farà i miracoli, ma mi darà una qualità della vita più simile a quella degli altri, più normale. Io ci credo, io voglio essere pronta, io voglio esserci”.
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