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Ferite nei corpi e nell’anima

Ferite nei corpi e nell’anima

Gaza - Dopo l’Operazione Piombo Fuso la vita nella Striscia continua, ma la normalità è un’illusione. L’assedio continua e il rapporto di una ONG palestinese analizza l’impatto del conflitto sulle donne

Antonelli Barbara Giovedi, 10/12/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2009

La terribile e devastante aggressione militare condotta da Israele dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio, ha provocato la morte di 1414 palestinesi di cui l’83% civili.

Qualsiasi situazione di post –conflitto è traumatica e dolorosa, in quanto donne, uomini e bambini si ritrovano a dover ricostruire la propria vita e elaborare la perdita, dei loro familiari, delle loro abitazioni, dei loro averi, della loro dignità e quotidianità.

Ma elaborare la perdita a Gaza è quasi impossibile, dal momento che il ritorno alla normalità è negato. Negato da un assedio che continua inesorabilmente. Ancora oggi e da oltre due anni, il governo Israeliano non consente o limita enormemente l’entrata attraverso i valichi di beni di prima necessità; materiali quali il legno per le porte, il cemento, elettrodomestici come frigoriferi o lavatrici, ma anche materiale scolastico, sanitario o semplicemente alcuni tipi di generi alimentari.



Il PCHR (Palestinian Center for Human Rights), una ONG palestinese con sede a Gaza che promuove studi e ricerche relative al diritto internazionale e alle sue applicazioni, ha recentemente elaborato un interessante rapporto che, oltre a analizzare le numerose violazioni del diritto internazionale e umanitario commesse da Israele a Gaza, evidenzia l’impatto specifico e le conseguenze dell’Operazione Piombo Fuso sulle donne.

Normalmente le donne - oltre ad affrontare le proprie personali ferite - si ritrovano a farsi carico delle ferite emotive e fisiche dei nuclei familiari o delle comunità nelle quali vivono. In una società di natura patriarcale, come quella palestinese, sono gli auomini a contribuire al sostentamento economico delle famiglie. Il che significa che un conflitto armato e la perdita del marito o dei figli di sesso maschile comporta necessariamente ulteriori marginalizzazione e discriminazione sociale. Le vedove non possono vivere da sole e si ritrovano costrette a rientrare nelle loro famiglie di origine.

Inoltre secondo il sistema legale applicato a Gaza, una vedova puo’ tenere la custodia dei suoi bambini solo fino a quando non si risposa una seconda volta; in quel caso la custodia dei figli passa automaticamente alla famiglia del marito.

Dal punto di vista giuridico il diritto internazionale tutela le donne, la loro esistenza, e la loro integrità fisica e morale, secondo quanto stabilito dala Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione contro le Donne, l’Accordo Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. Accordi che anche lo Stato di Israele ha ratificato. Le donne dovrebbero essere maggiormente protette - secondo la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 - in quanto soggetti che non partecipano direttamente alle ostilità e in quanto particolarmente vulnerabili.

Questo è quanto scritto sulla carta. In realtà, dall’inizio della seconda Intifada (settembre 2000) 281 donne palestinesi sono state uccise da attacchi Israeliani nella West Bank e a Gaza. All’inizio della seconda Intifada, la maggior parte delle donne è stata uccisa in West Bank, tendenza invertita a partire dal 2003. Solo l’Operazione Piombo Fuso ha ucciso 118 donne e ne ha ferite più di 825, soprattutto nella zona a Nord della Striscia e a Gaza City.

Il report realizzato dal PHRC presenta e analizza attraverso 12 storie, le vite spezzate di donne che sono state vittime degli attacchi israeliani a Gaza. Storie che ovviamente non racchiudono tutta la casistica delle violazioni commesse, ma che riflettono la realtà delle donne e le difficoltà affrontate nella fase post-conflitto.

Come la storia di Wafa Al Raeda. Incinta al nono mese, 37 anni, di Beit Lahiya, Wafa è stata ferita gravemente il 10 gennaio insieme a sua sorella Ghada, in seguito al lancio di razzi da un drone telecomandato. Date le capacità tecnologiche del drone, è presumibile che l’opeartore fosse in grado di identificare Wafa e Ghada in quanto civili di sesso femminile.

Era stato temporaneamente dichiarato il cessate il fuoco e Wafa voleva recarsi dal medico. In seguito al lancio del razzo ha perso la gamba, ma in coma ha dato miracolosamente alla luce suo figlio, con un parto cesareo. E’ stata – ancora in coma – trasferita in Egitto dove ha subito 7 operazioni. “Ancora adesso sento male alla gamba, non riesco a camminare” dice Wafa. Ha potuto vedere suo figlio solo dopo 5 mesi. E’ riuscita a parlare di quello che le è accaduto solo dopo 7 mesi.

Il marito di Ghalya, 52 anni è gravemente malato, non lavora da oltre 6 anni. Suo figlio Ibrahim, 20 anni, vendeva “awam”, una specie di dolce, per strada ed era l’unica fonte di reddito per la famiglia, che nonostante riceva aiuti dall’UNRWA (Agenzia delle NU per i rifugiati palestinesi) in quanto profuga, vive in condizioni di etrema indigenza. Ibrahim e altri due figli di Ghalya sono stati uccisi da un elicottero Israeliano. E’ stata lei a raccogliere i loro corpi, sul tetto della loro casa nella zona merdionale di Gaza City. Sua figlia Shadea ha perso il suo fidanzato, Ayman, nell’attacco e il trauma le ha lasciato gravi problemi psicologici. E’ toccato sempre a Ghalya informare la famiglia di Ayman della sua morte.

Al momento la loro situazione finanziaria, in una casa che porta ancora i segni della distruzione, è drammatica. “Non ho lavoro – dice Ghalya – se qualcuno mi chiede di preparare il maftoul (piatto tipico palestinese), lo faccio, ma non è un lavoro regolare”.

Hala Herzullah, prima di Operazione Piombo Fuso, lavorava nel dipartimento amministrativo dell’Università di Al Aqsa. Non è più rientrata al lavoro: ha perso i suoi due figli maschi e al momento deve rimanere a casa per prendersi cura di suo marito Mohammed e sua figlia Maram, entrambi gravemente feriti.

Intissar Hamouda, 39 anni, ha tentato per 20 anni di rimanre incinta. Ha tirato su i figli del suo secondo marito, Talat, con cui finalmente ha avuto un bambino, Fares, due anni e mezzo fa. Lo teneva tra le braccia quando un carro armato israeliano ha fatto fuoco sulle pareti della sua abitazione a Tel el-Hawa. Fares è morto immediatamente. Il quartiere di Tal el Hawa è un’area aperta, circondata da vigneti, difficile immaginare che ci fossero guerrigleri nelle vicinaze nascosti.

Saba Abu Halima, di Sayafa: 5 dei suoi figli sono morti come pure suo marito. Suo figlio Omar, 17 anni è stato ferito, ma ora che è guarito ha dovuto lasciare la scuola secondaria per fare l’agricoltore. E’ l’unico che porta i soldi a casa. Anche Masouda ha perso suo marito e suo figlio Mousa di tre anni, mentre era al quinto mese di gravidanza. Ora è tornata a vivere con sua madre, dove le hanno dato una stanzetta per lei e i suoi altri figli. Nessuna privacy, ma non vuole risposarsi, perchè rischierebbe di non vedere più i figli che le sono rimasti.

Centinaia sono le altre donne palestinesi che hanno subito traumi, ferite, perdite. Alcune di loro non avranno nessuno a cui raccontare la loro storia. Altre non la vorranno raccontare.

Il rapporto completo è su: http://www.pchrgaza.org

 



(10 dicembre 2009)

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