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Femministe ante litteram - di Loredana Massaro

Femministe ante litteram - di Loredana Massaro

Unite per l’Unità - I movimenti delle donne nell'Unità d'Italia e le prime battaglie per il lavoro, lo studio e la salute / seconda e ultima parte

Massaro Loredana Venerdi, 11/05/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2012

Ai tempi dell’Unità d’Italia il lavoro femminile difficilmente veniva riconosciuto come tale: quasi tutte le donne occupate nell’agricoltura, infatti, non venivano riconosciute come lavoratrici, a meno che non fossero titolari di una proprietà o di un contratto di affitto. Lo stipendio delle lavoratrici era in genere poco più della metà di quello dei lavoratori di sesso maschile. Poiché anche il lavoro dei bambini era assai diffuso, e sottopagato, prima della prima guerra mondiale furono emanate alcune leggi per tutelare "donne e fanciulli", quali soggetti deboli e sfruttati. I salari più bassi delle donne venivano percepiti dagli altri lavoratori come una forma di concorrenza sleale, che generava poi una sorta di dannosa “guerra tra poveri”, fu anche per questo che le prime proposte di legge cercarono di garantire un minimo salariale alle lavoratrici, in modo da "mantenere sul mercato la manodopera maschile”.

Nel 1902 fu emanata una legge sul lavoro femminile che voleva essere di aiuto alle donne, ma finì invece per limitare ancora una volta i loro diritti: se da un lato essa concedeva quattro settimane di riposo - non pagato - alle puerpere, dall’altro vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti "pericolosi". I lavori "pericolosi" contenuti nel decreto attuativo erano in realtà lavori ideologicamente ritenuti incompatibili con le “attitudini” femminili (attivazione di macchine, trattamenti di polveri e materiali "sconvenienti" o tali da richiedere una manipolazione complessa etc.). Lo Stato poi mostrava di voler favorire al massimo il rientro delle donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale: la casa. Anche l’enciclica papale Rerum Novarum, uscita in quegli anni, faceva da specchio al senso comune: "Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso". La legge del 1902 tradiva anche la speranza di ridurre il divario salariale con gli uomini: le lavoratrici fra i 16 e i 21 anni, venivano equiparate in capacità e abilità (e quindi in stipendio) ai lavoratori con meno di 15 anni.

La donna lavoratrice fu un prodotto della società industriale, non tanto perché la meccanizzazione creò per lei posti di lavoro, quanto a causa del fatto che divenne una figura tormentata e ben visibile. La donna lavoratrice era percepita come un problema, di recente creazione e che andava risolto; il dilemma coinvolgeva il significato stesso di femminilità e di compatibilità fra femminilità e salario; il problema era posto e discusso in termini morali e categorici. Che l'oggetto dell'attenzione fosse un'operaia di un'industria promiscua, una cucitrice ridotta in miseria, o una compositrice emancipata, che fosse descritta come una ragazza indipendente, come una madre, come una vedova o come la moglie di un operaio disoccupato, le domande che sollevava erano le stesse: una donna avrebbe dovuto lavorare per un salario? Qual era l'impatto del lavoro salariato sul corpo della donna, e sulla sua capacità di adempiere i ruoli materni e familiari? Il problema era impostato nei termini di una presunta opposizione fra famiglia e lavoro, tema purtroppo ancora molto attuale.

Si riteneva che mentre nel periodo preindustriale le donne avessero combinato con successo l'attività produttiva e la cura dei figli, il lavoro e la vita familiare, ora il presunto mutamento del luogo di lavoro avesse reso difficile, se non impossibile, questa combinazione. Di conseguenza, si diceva, le donne avrebbero potuto lavorare solo per brevi periodi della loro vita, ritirandosi dall'impiego salariato dopo essersi sposate o dopo aver avuto un bambino, e ritornando al lavoro più tardi solo se i loro mariti non fossero stati in grado di mantenere la famiglia. Da questo derivava il fatto che esse si indirizzassero verso lavori non specializzati e mal pagati, per dare priorità ai loro impegni materni e domestici, rispetto a qualsiasi identificazione professionale. La “questione” della donna lavoratrice era allora anomala in un mondo dove il lavoro retribuito e le responsabilità familiari erano divenuti entrambi compiti a tempo pieno, e spazialmente separati. Insomma la causa del “problema” era inevitabile in un contesto di sviluppo industriale capitalistico che seguiva una sua propria logica. Questa interpretazione del lavoro femminile contribuì all'opinione medica, scientifica, politica e morale che è stata indicata come l'“ideologia della vita familiare” o la “dottrina delle sfere separate” dove si concettualizza il genere come il fattore della divisione sessuale “naturale” del lavoro nel XIX secolo. Il dilemma casa “versus” lavoro si collegò con la creazione di una forza lavoro femminile, definita come una fonte di lavoro a basso costo e idonea solo per certi tipi di occupazioni.

Nel frattempo era emersa chiaramente l’ostilità della maggioranza dei lavoratori di sesso maschile a qualunque norma a favore delle lavoratrici nel timore che potesse aumentare la concorrenza del lavoro femminile. Così anche il Partito Socialista e le sue organizzazioni sindacali non perorarono la causa della tutela del lavoro femminile, nonostante lo slogan socialista: "Le donne che lavorano come voi sono uomini". Sul versante dei diritti civili e politici, erano intanto nate l’Associazione nazionale per la donna a Roma nel 1897, l’Unione femminile nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, aderente al Consiglio internazionale femminile.

Nel 1881 Anna Maria Mozzoni tenne un’accorata perorazione del suffragio femminile: "Se temeste che il suffragio alle donne spingesse a corsa vertiginosa il carro del progresso sulla via delle riforme sociali, calmatevi! Vi è chi provvede freni efficace: vi è il Quirinale, il Vaticano, Montecitorio e Palazzo Madama, vi è il pergamo e il confessionale, il catechismo nelle scuole e ... la democrazia opportunista!". Ed infatti tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne, o meglio ad alcune categorie di donne, venivano regolarmente bocciati (Minghetti 1861, Lanza 1871, Nicotera 1876-77, Depretis 1882 etc.).

Sul fronte dell’istruzione, venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultano iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Quattordici anni dopo le iscritte agli istituti di istruzione media (compresi gli istituti tecnici) saranno circa 100.000.

Il titolo di studio però non garantisce ancora l’accesso alle professioni. Nel 1881 una sentenza del Tribunale annullò la decisione dell’Ordine degli avvocati di ammettere l’iscrizione di Lidia Poët, laureata in legge e procuratrice legale. Nel 1877 venne però approvata una legge che ammetteva le donne come testimoni negli atti di stato civile.

Già durante i lavori della Prima internazionale (1864-1872), i socialisti presero posizioni molto diverse fra loro riguardo alla questione femminile. I più ostili alle richieste femministe furono i proudhoniani, mentre August Bebel, riprendendo le tesi di Marx ed Engels, analizzò più a fondo la condizione della donna e fu per questo il teorico socialista che più influenzò le teorie femministe. La questione femminile appariva quasi sempre in primo piano nei congressi del partito e su questo problema le donne si scontrarono spesso e apertamente con i loro compagni. Già fra i congressisti della Prima internazionale, le socialiste americane polemizzavano con Marx e contestavano le direttive generali del partito secondo le quali la lotta di classe avrebbe dovuto avere la precedenza rispetto a quella fra i sessi. Più tardi, Clara Zetkin e Rosa Luxemburg condussero accesi dibattiti sullo stesso argomento. Nel 1910, la militante socialista Anna Kuliscioff scriveva sulla rivista “Critica sociale”, da lei diretta, che non riusciva a spiegarsi la rigidità dei suoi compagni di partito di fronte ai movimenti femminili, anche dopo essersi mostrati così accondiscendenti perfino verso i borghesi.

Socialista, laureata in medicina, Anna Kuliscioff (1857-1925) era in grado di contestare i numerosi studi dei medici positivistici, come Lombroso e Ferrero, che intendevano dimostrare l'inferiorità mentale e fisica della donna attraverso una serie di “rilevamenti” empirici. La Kuliscioff affermava che la donna non era né inferiore né superiore agli uomini, ma “solo quello che è”. E non occorrevano per lei trattamenti particolari come non esistevano leggi diverse per uomini intelligenti, normali e uomini cretini (“Il monopolio dell'uomo”, 1894).

Nel 1888 si specializzò in ginecologia, prima a Torino, poi a Padova. Con la sua tesi scoprì l'origine batterica della febbre puerperale, aprendo la strada alla scoperta che avrebbe salvato milioni di donne dalla morte dopo il parto. Si trasferì poi a Milano, dove esercitava l'attività di medico, recandosi tra l'altro anche nei quartieri più poveri della città. Dai milanesi venne chiamata la "dottora dei poveri".

Nel periodo in cui le prime lavoratrici organizzavano scioperi, Anna Kuliscioff, in un discorso in occasione delle elezioni del 1897, comunicò che secondo i suoi calcoli le operaie tessili erano circa un milione e mezzo e sostenne che le condizioni delle lavoratrici erano quelle di un “martirio lento”. Inoltre, “poiché le donne non possono più venire cacciate al fuso e alla cucina, occorre riconoscere il posto della donna nella lotta generale dei lavoratori: lotta che non si esaurisce nei sindacati ma deve diventare lotta politica”. La Kuliscioff si discostava apertamente dalla politica contro il voto alle donne condotta dal suo partito, fino alla rottura con Filippo Turati, suo compagno. Nel corso della lunga polemica fra i due scoppiata nel 1910 e riportata in diversi numeri de “L'Avanti” e di “Critica sociale”, la Kuliscioff, riprendendo Bebel, sostenne che il timore di perdere le elezioni non doveva essere motivo sufficiente per non concedere il voto alle donne.

Nel 1881 si verificò un balzo della produzione industriale al nord e una grave crisi agricola al Sud, pertanto sempre più donne furono impiegate nell'industria tessile o nei campi come mondine. L'idea tradizionale della donna corrispondeva sempre meno al quadro reale della situazione reale. Fu allora che le prime lavoratrici si indirizzarono verso diversi gruppi sindacali. Le operaie tessili fondano nel 1888 la “Società fra le sorelle del lavoro” e nell'ultimo ventennio del secolo, le mondine conducono gli scioperi e le manifestazioni più importanti. Nonostante questa realtà politica e culturale, alla fine dell'Ottocento, con mezzo secolo di ritardo rispetto alle altre nazioni, si svilupparono movimenti femministi radicali molto attivi che lottavano soprattutto nelle campagne per il voto. Rimasero sempre senza nessun appoggio politico perché temuti sia dai socialisti che dai conservatori. Nel 1897 nasceva a Roma l'Associazione nazionale per le donne, nel 1899 venne fondata a Milano l'Unione femminile nazionale e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, con rappresentanti di tutta Italia e affiliato al Consiglio internazionale femminile. (Fine, la prima parte è pubblicata nel numero di maggio 2012 di ‘noidonne’)





Fonti:



Rosantonietta Scramaglia, Femminismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1997

George Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente. L'Ottocento, Roma; Bari, Laterza, 1996

wikipedia.it

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