Unite per l'Unità - I movimenti delle donne nell'Unità d'Italia e le prime battaglie per il lavoro, lo studio e la salute / prima parte
Massaro Loredana Venerdi, 06/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2012
Le donne attive nell'Unità d'Italia, non sono solo quelle romanticamente delineate, idealizzate o mistificate ma piuttosto le eroine della vita di tutti i giorni, quelle che diedero vita a movimenti e idee che nati alla fine dell'Ottocento, furono portati a compimento nel secolo seguente. E chi avrebbe mai immaginato che proprio a ridosso del 1870 appare per la prima volta in Italia il termine femminismo? È contenuto nell'opera del francese Luigi Fichert, “Femminismo (terzo sesso). Satira morale”. Si tratta di un neologismo medico, passato ben presto a indicare quelle donne che lottano per divenire politicamente e socialmente pari agli uomini. Da allora il termine denota il movimento collettivo e militante dove le donne si comunicano la loro esperienza, si riconoscono nelle stesse condizioni, le giudicano ingiuste, hanno la speranza di poterle migliorare e intendono lottare insieme per questo. I primi movimenti femministi sorgono con la rivoluzione francese, poi se ne hanno altri in Francia durante le rivoluzioni del 1830, del 1848 e del 1870, in Italia esordiscono in occasione dei moti risorgimentali, negli Stati Uniti durante la lotta di emancipazione dei neri, in Inghilterra a fianco dei movimenti cartisti del 1840, in Germania e in Russia insieme ai movimenti socialisti operai.
In Italia durante la restaurazione che seguì il periodo napoleonico, la monarchia e la Chiesa tentarono in ogni modo di ristabilire i valori tradizionali, come se nulla fosse successo con la Rivoluzione francese e, per quanto riguarda il ruolo delle donne, costringerle all’interno di un destino immutabile assegnatole da Dio. Pertanto mentre il mondo politico e culturale pone come prioritario il compimento dell'Unità d'Italia, ignora intanto del tutto la questione femminile. È solo in seguito al 1870 che muta l'immagine della donna.
La prima opera postrisorgimentale che contiene i concetti principali del femminismo, è “La donna e la scienza o la soluzione del problema sociale”, è scritta nel 1862 da un uomo del meridione, Salvatore Morelli, che, a causa della sua visione sulla condizione della donna assolutamente rivoluzionaria per l'Italia, venne duramente attaccato e accusato di anticlericalismo. Deputato per quattro legislature, nel 1867 presenta, primo in Europa, un progetto di legge per la parità tra donne e uomini. Negli anni 1874-1875 propone un nuovo Diritto di Famiglia, che prevedeva l’eguaglianza dei coniugi nel matrimonio, il doppio cognome, i diritti dei figli illegittimi e il divorzio. Nel 1875 presenta con un apposito disegno di legge, la richiesta del diritto di voto per le donne. Nel 1877 il Parlamento italiano approva il progetto di legge Morelli che riconosce alle donne il diritto di essere testimoni negli atti del Codice Civile, come per esempio i testamenti. È questo un importante passo avanti per il risvolto economico che ne consegue e per un primo riconoscimento della capacità giuridica delle donne.
Uno dei primi contributi alla causa femminile è dato dalle opere della contessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871), che riflette con lucidità sulla sua esperienza personale e su quella di tutte le donne. Cristina ebbe una travagliata vita sentimentale e comportamenti ritenuti per il tempo scandalosi (sposata al principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, lasciò il marito ed ebbe una figlia da un nuovo compagno). Fuggita in Francia dopo il 1831, si dedicò al giornalismo. Tornata in Italia nel 1840 si stabilì a Trivulzio e rimase molto colpita dalle condizioni di miseria estrema in cui si trovavano i contadini del tempo, decise di dedicarsi ai problemi sociali aprendo asili e scuole per i figli e le figlie dei contadini che lavoravano nelle sue proprietà. Cristina di Belgiojoso partecipò attivamente anche alla vita intellettuale e politica del tempo. Intervenne nelle Cinque Giornate di Milano, convinta che il Risorgimento dovesse anche apportare riforme sociali. Nel 1848-49 fu in prima linea: raggiunse Milano guidando la “Divisione Belgiojoso”, duecento volontari da lei reclutati e finanziati. A Roma nei mesi della Repubblica guidata da Mazzini, lavorò giorno e notte negli ospedali durante l'assedio della città, creando le “infermiere” laiche e chiamando a questo compito nobili, borghesi e prostitute. Alla caduta della Repubblica dopo essersi battuta per salvare feriti e prigionieri, fuggì a Malta, ad Atene e infine a Costantinopoli. I suoi viaggi in Oriente e i suoi tentativi di creare società utopistiche perfino in Turchia, testimoniano una nuova svolta nella sua vita. Dopo l'Unità d'Italia si dedicò alle meditazioni sulla condizione della donna: diritto all'istruzione e una paga pari agli uomini sono le proposte avanzate da Cristina di Belgiojoso che, come tiene a precisare lei stessa, restano le prime rivendicazioni a cui la donna debba aspirare.
La donna, al tempo dell’Unità d’Italia, era un accessorio del capofamiglia (padre o marito). Nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli, né potevano essere ammesse ai pubblici uffici. Se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro. Veniva loro chiesta l’"autorizzazione maritale" per donare o alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali. Tale autorizzazione era necessaria anche per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
Nel periodo Risorgimentale in Italia, il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione restò assai superficiale e marginale, soprattutto se pensiamo che molti degli "illustri pensatori" del Risorgimento italiano che riteniamo intellettuali d'avanguardia, si sforzarono di ribadire ancora una volta la soggezione della donna all'uomo. Unica voce fuori dal coro quella di Giuseppe Mazzini. Secondo Vincenzo Gioberti: "La donna è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé". Per Rosmini: "Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata". Secondo Filangieri spetta alla donna l’amministrazione della famiglia e della prole, mentre le funzioni civili spettano all’uomo.
Tali teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato solo molti anni più tardi, nel 1975. Anche per quanto riguardava l'esercizio dei diritti politici, il dibattito in Italia fu assai poco acceso. Le stesse donne attive sulla scena politica furono uno sparuto gruppo di eccezioni. In siffatto clima le donne, nell’Italia unita, vennero sistematicamente escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1866 proprio Cristina di Belgiojoso scriveva: "quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento delle loro uguaglianza formale, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. [...] Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi". Nel 1875 la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’on. Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli "analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti" e volta a concedere alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini. Dopo la bocciatura delle legge, Mazzini scrisse al deputato: "L’emancipazione della donna sancirebbe una grande verità base a tutte le altre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia [la monarchia] è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù".
Solo nel 1880 a Milano Anna Maria Mozzoni aveva fondato una Lega Promotrice degli interessi femminili - che si batteva in particolare per il diritto di voto alle donne -, ma le prime femministe stesse, in Italia si interessarono poco delle questioni politiche e molto di più a quelle sociali, influenzate anche dall'affermarsi del neonato Partito Socialista.
Anna Maria Mozzoni (1837-1920) fu la più eminente femminista italiana del XIX secolo. Di agiata famiglia milanese, dopo aver studiato giovanissima le opere degli illuministi e in particolare quelle di Beccaria, Fourier e Saint-Simon, forte delle loro teorie, la Mozzoni intraprese una serrata critica alla religione e alla tradizione, perché non riconoscevano alle donne né una natura razionale né il basilare diritto all'istruzione. Diversamente dai contemporanei che parlavano di “missione” della donna nella famiglia, la Mozzoni analizzava i “rapporti sociali” della donna. Per lei, il Risorgimento doveva compiersi anche “liberando la donna”. Ma in questa affermazione l'autrice cercava di spronare le donne a lottare loro stesse per la propria emancipazione. In un discorso tenuto al Circolo filologico di Milano, molto lucidamente dichiara che “le donne non avranno altri diritti di quelli che si saranno conquistati, non godranno di altra libertà di quella che si saranno difesa giorno per giorno”. Intraprese dunque una lunga battaglia per il voto alle donne, non nascondendosi le difficoltà cui sarebbe andata incontro. Ad un comizio, tenuto a Roma, nel 1881, affermò: “Sono convinta che la democrazia non penserà mai sul serio alla donna, se non quando avrà bisogno del suo voto”.
Nel 1870 Mozzoni tradusse l'opera di John Stuart Mill “La soggezione delle donne”, che era stata un riferimento costante del femminismo inglese. L'autrice cercò qui di inserire la causa femminile nella realtà politica italiana e nella questione sociale. Propose, per esempio, che fossero riesaminati tutti gli articoli del Codice albertino che non rispettassero i diritti inviolabili delle donne. Si interessò dei problemi delle lavoratrici e del loro diritto a essere pagate quanto gli uomini. Ritenne dannosa la divisione fra femminismo borghese e femminismo proletario, perché secondo lei le donne di tutte le classi sociali erano ugualmente oppresse e pertanto dovevano realizzare una totale solidarietà fra di loro.
Insieme ad Anna Kuliscioff e a Filippo Turati, Anna Maria Mozzoni fu una delle fondatrici della Lega socialista milanese, collaborò al giornale “Critica sociale” e contribuì alla nascita del Partito socialista italiano.
Nel 1892 fu evidente la contraddizione tra socialisti stessi nell'affrontare la questione femminile e Anna Maria Mozzoni entrò in polemica con Anna Kuliscioff. Per la Mozzoni, infatti, non si poteva considerare la lotta per l'emancipazione femminile solo un momento della lotta più generale per le questioni economiche in quanto l'emancipazione non poteva risolversi con il solo perseguimento di un maggiore benessere. Quando il Partito socialista chiese una legislazione in difesa delle donne lavoratrici, la Mozzoni si dichiarò ostile a tale politica di tutela, temendo che, per ritorsione, le donne fossero ricacciate nelle loro case “come le galline a covare le uova nella solitudine e nel silenzio”. Per questo motivo chiese ai socialisti di tralasciare la questione femminile piuttosto che occuparsene male, condannando le donne “a morire di fame sane, purché non si ammalino lavorando” (L'Avanti! 7.3.1898).
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