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Femminicidio: è legge, ma…..

Femminicidio: è legge, ma…..

Non nel nostro nome - Non c’è stata l’unanimità in Parlamento sul testo definitivo. E ora il dibattito tra le donne, dentro e fuori i movimenti, continua

Silvia Vaccaro Domenica, 10/11/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2013

In questi mesi è stato un crescendo di avvenimenti a partire dal 19 giugno, data dell’approvazione all’unanimità della Convenzione di Istanbul, un primo e importante strumento internazionale giuridicamente vincolante finalizzato a concretizzare azioni di contrasto alle varie forme di violenza contro le donne. Il cammino sovra-nazionale della validazione definitiva della Convenzione è in corso - deve essere ratificata da almeno dieci Paesi (al momento, oltre che dall’Italia, è stata approvata da Montenegro, Albania, Portogallo e Turchia), di cui otto facenti parte il Consiglio d’Europa - ed è decisivo che gli Stati accolgano e condividano la definizione della violenza contro le donne come risultato di rapporti diseguali di potere tra i sessi e non come problema di ordine pubblico. In Italia, in agosto, il Governo ha emanato un Decreto che è diventando legge (n. 1540) lo scorso 11 ottobre, ma questa volta senza unanimità: da una parte i partiti della maggioranza PD-PDL, dall’altra SEL e M5S che non hanno partecipato al voto. Al centro del dissenso la presenza nella legge, oltre ad alcuni aspetti riguardanti il femminicidio in modo specifico, di articoli che con la violenza di genere non hanno alcuna relazione quali i reati per i furti di rame, l’identità informatica e, addirittura, la militarizzazione di alcune aree del territorio tra cui la Val di Susa. Una scelta inaccettabile per Titti Di Salvo (SEL), che ritiene sbagliato: “l’uso del corpo delle donne come locomotiva dietro cui trascinare provvedimenti di tutt’altro significato” e, infatti, precisa: “abbiamo giudicato negativamente il messaggio proposto, quello che la violenza contro le donne fosse un problema di ordine pubblico. Noi sappiamo invece come la violenza contro le donne sia legata a rapporti prepotentemente squilibrati tra uomini e donne e come quella violenza maschile non si riesca a risolvere se non cominciando a cambiare la cultura partendo dalla scuola. Nonostante questo, abbiamo lavorato alacremente per correggere gli aspetti negativi e per potenziare quelli positivi, tra cui annoveriamo il diritto del permesso di soggiorno per le donne straniere vittime di violenza, mentre consideriamo insufficiente il finanziamento ai Centri antiviolenza”. D’altro canto il provvedimento “aveva carattere di necessità e di urgenza” secondo Marianna Madia (PD) che, circa l’accumulo di questioni estranee alla violenza di genere, precisa: “c’era urgenza di approvare le altre norme, ma questo non toglie valore di legge a quelle sul femminicidio”. La collega di partito Vanna Iori giudica il decreto “un grande punto di partenza” e ci tiene a valorizzare un particolare aspetto, incluso grazie ad un suo emendamento, quello dell’aggravante per la violenza contro le donne in gravidanza. “È un argomento quasi tabù per la sacralità attribuita a quella condizione, eppure l’OMS dice che 1 donna su 4 subisce violenza in gravidanza e sostiene è la seconda causa di morte per le donne incinte dopo l’emorragia. Il decreto prevede percorsi di rieducazione per uomini maltrattanti, e più in generale percorsi di educazione e di prevenzione nelle scuole per il rispetto delle relazioni tra uomini e donne”. Il dibattito sulla legge, dentro e fuori la rete, è caldo e le opinioni della “gente comune” sono le più disparate: si va dal “non sono questi i veri problemi dell’Italia” a “non è vero che le donne subiscono più violenza degli uomini”, dal “siamo al nazi-femminismo” al ginepraio di commenti seguiti alle parole della Presidente Boldrini sugli spot sessisti che rappresentano quasi sempre donne ‘angeli del focolare’ che servono allegramente pasti succulenti: “che problema c’è se servo la cena ai miei figli?” scrive una sua (e)lettrice nel blog di Grillo. Il piano di discussione è dunque politico, ma anche di linguaggio e di metodo. E le opinioni di pancia dei cittadini rispondono in qualche modo all’incapacità diffusa dei politici di trattare questo tema. “Mi sembra sia in corso una semplificazione di discorsi. Non è certo una novità ma questo tipo di semplificazione sta diventando sempre più rischiosa. Viene usato il discorso del femminicidio come un brand, che porta visibilità e lustro a chi lo usa. Quando un discorso esce dalle nicchie e diventa mainstream, c’è sempre il rischio di una semplificazione, ma è qualcosa su cui si può lavorare. Quando però ci sono di mezzo le leggi, e in particolare questo, che non è un decreto legge sul femminicidio ma un pacchetto sicurezza, è un po’ più grave”. Così Loredana Lipperini, giornalista e scrittrice, sintetizza perfettamente quello che è accaduto, perché sebbene la violenza contro le donne sia un argomento di grande attualità su cui si sta alzando il livello di attenzione, non è comunque positivo che avvenga quello che Oscar Wilde auspicava per se stesso. “Bene o male purché se ne parli”. Ma per parlare di violenza sulle donne occorre pesare ogni parola, poiché è dalle parole (che si usano o che non si usano) che scaturiranno le pratiche efficaci o inutili, o persino dannose. Occorre dunque partire dalle definizioni, come suggerisce Oria Gargano, Presidente della Cooperativa Be Free che gestisce un centro anti-violenza nel Pronto Soccorso del San Camillo di Roma e un servizio h24 SOS Donna del Comune di Roma. “Bisogna innanzitutto rivedere la definizione di Centro antiviolenza che in Italia è considerato quello con la residenzialità, ma questa è solo una delle possibilità per fare degli interventi. In ogni caso è necessario che tutte le strutture abbiano determinati requisiti. Al momento non abbiamo la classificazione di operatrice di centro antiviolenza, classificata invece come ‘operatore sociale’, una definizione generica che non tiene conto della professionalità che un’operatrice antiviolenza deve avere. Sulla falsa riga di quello che è stato fatto per la formazione dell’équipe di chi si interfaccia con vittime di tratta (un lavoro europeo, i cui referenti italiani erano Isabella Orfano, Pippo Costello e la magistrata Elisabetta Rosi), andrebbe costruita una guida su come formare un’équipe di operatrici sulla violenza. I Centri poi andrebbero inseriti in network facilitando la raccolta dati. Proprio i Centri, ben coordinati, potrebbero raccoglierli efficacemente”. Il mancato riconoscimento di standard e la vaghezza con cui le Istituzioni si sono mosse, senza un confronto vero, senza una concertazione a 360° con le Associazioni e i Centri, sono la causa del fallimento del Piano nazionale contro la violenza sulle donne, in scadenza a novembre. Le criticità le spiega Titti Carrano Presidente dell’associazione Di.Re. “Il piano non ha funzionato perché non c’era una specificità né una concretezza negli interventi, né c’era un adeguato riconoscimento dei Centri antiviolenza equiparati a servizi pubblici o privati assistenziali. Il Centri antiviolenza non erogano assistenza ma sono luoghi di libertà dove negli anni si è svelata la violenza, e ci sono state grandi elaborazioni culturali. Perché non partire da un sapere acquisito? Perché non valorizzare ciò che è stato fatto finora? L’elaborazione dei Centri antiviolenza c’è da vent’anni, dunque partiamo da quello che è stato prodotto e poi continuiamo a cambiare”. Partire da un confronto col territorio è proprio uno dei punti in cui la Convenzione di Istanbul insiste di più e oltre i Centri, anche i movimenti femministi e tutte le donne che si occupano a vario titolo di violenza contro le donne non sono rimastea guardare in silenzio l’approvazione di questo decreto. Complice la concomitanza temporale delle ultime battute della discussione in Parlamento con il meeting nazionale dei movimenti femministi a Paestum (4-6 ottobre), il dibattito si è acceso anche lì, provocando discussioni tra punti di vista molto differenti sui criteri che stanno alla base del ragionamento sulle norme a tutela delle donne e sulle modalità con cui i movimenti devono farsi carico delle istanze delle donne e di tutti gli altri temi in agenda (migranti e lavoro precario, per fare un paio di esempi) e che influenzano i ragionamenti e le pratiche. Donne impegnate a vario titolo sul tema e che contestano il decreto si stanno organizzando sotto l’evocativa denominazione “noninmionome” e da loro verranno probabilmente azioni concrete. Quel che è certo è che, nonostante le profonde differenze e divisioni interne, c’è un fermento interessante dentro e fuori la rete che coinvolge le donne e le sta chiamando ad agire. Una delle modalità è anche lo Sciopero delle Donne, convocato per il 25 novembre e sostenuto da comitati locali e realtà associative territoriali, ma anche dalla Cgil. Un'azione forte per “indurre il nostro Paese a una riflessione seria sulle relazioni tra i generi, sul potere e le sue dinamiche di sopraffazione”. Sul sito www.scioperodelledonne.it sono reperibili tutte le informazioni.



Videointerviste a Vanna Iori e Titti Di Salvo sul Canale Noidonne sulla piattaforma Streamago: http://www.streamago.tv/general/24619/

Intervista integrale a Titti Carrano: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=04862

Intervista integrale a Oria Gargano: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=04863



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