Giovedi, 31/05/2012 - In questi giorni la cronaca nera si è soffermata sul caso di Kaur Balwinde, un’indiana di anni 27, uccisa dal marito anch’egli indiano perché: 1_“vestiva all'occidentale” (spiegazione smentita poi dal pm); 2_“per preservare la sua cultura”; 3_perché c’è “un’immigrazione che rifiuta l’integrazione” e per altre motivazioni trovate immediatamente da varie testate giornalistiche, che dimostrano un’indomita vocazione analitica nel rintracciare rapporti tra sostrato culturale e uccisioni (altrimenti dette “femminicidi”).
Da molte parti - quasi tutte femminili - si sono levate proteste più o meno adeguatamente articolate per questa connessione tra ambito culturale specifico e femminicidio straniero, che appare indubbiamente singolare se raffrontato al modo di trattare o mal-trattare notizie analoghe ma d’estrazione banalmente italiana.
Io, invece, vorrei fare l’opposto. E infatti plaudo all’improvvisa capacità di collegare, alla voglia di rintracciare fili conduttori con uccisioni precedenti di donne immigrate, trovo sano e bello che finalmente i contesti culturali vengano messi in luce con immediato e impeccabile zelo. Al tempo stesso, però, chiedo una cosa: che altrettanta solerzia si dimostri nell’offrire alla pubblica opinione i quadri esplicativi entro cui collocare i femminicidi nostrani, che invece - stranamente e malgrado la loro frequenza numerica elevata - sono sempre dipinti come determinati da impulsi distruttivi del momento, da obnubilamenti temporanei, da depressioni, turbe varie, orticarie, forse anche da pustole insorgenti, ma non dalla causa reale che li generano: la cultura sotterranea tutta italiana del possesso nei confronti della donna italiana.
Per concludere, dunque, lancio un invito a tutti i giornalisti di nera: assicurate agli assassini italiani lo stesso approfondito trattamento che riservate agli assassini immigrati. Per par condicio, direi quasi costituzionale, dell'esplosivo femminicidio italiano con l'altro che descrivete tanto bene.
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