Venerdi, 04/05/2012 - “Il bollettino di guerra quotidiano ci comunica sistematicamente l’aggressione di una o più donne in una qualche regione d’Italia per mano di mariti, compagni, fidanzati abbandonati o che si credono tali, aspiranti partner sessuali respinti, i quali, considerando non persona ma proprietà del genere maschile la sfortunata di turno, ritengono di poterla oltraggiare, ferire, violentare, assassinare, con la stessa disinvoltura con cui si rompe o si getta via un oggetto usato, se la possibilità di quell’uso viene meno” .
Così iniziava una petizione al Presidente Napolitano, portata a conoscenza di tutti gli Ordini dei Giornalisti italiani e di numerose testate giornalistiche, lanciata da me e da Francesca Rosati Freeman il 23 marzo di quest’anno. Oggetto: il linguaggio dei media utilizzato per indicare gli assassinii di donne che la stampa tarda a chiamare col nome che loro spetta: “femminicidi”.
Questo termine, che pur comincia a raccogliere intorno a sé anche consensi di alcuni uomini, ancora troppo pochi in verità, ha provocato grande agitazione tra i ciechi di professione, ovvero tra quelli che continuano imperterriti a negare l’esistenza di un crimine specifico motivando la loro cecità in vario modo. Spicca una spiegazione che ho letto di recente sul blog La 27ª Ora del Corriere, quale commento allo scritto “Il femminicidio si può fermare” di Lea Melandri.
Dopo aver paragonato con una disinvoltura da manuale ciò che nessuno studioso di statistica comparerebbe trattandosi di universi disparati, ovvero le cifre dei morti del sabato sera o dei morti sul lavoro a quelle, ovviamente per lui di serie B, delle donne ammazzate da uomini, l’estensore del commento nega l’esistenza di un odio contro le donne scrivendo: “Niente di più sbagliato, le motivazioni sono ben altre, perché questi uomini amavano le loro donne, in maniera sbagliata certo, ma il punto è che non odiano le donne”. E così prosegue: “si tratta di capire che il peso di pensare la propria donna nelle mani di un altro, nelle menti di questi individui, è ben più grave che il peso di passare la vita in un carcere. In carcere un senso lo trovi, invece pensare all’abbandono della donna che ami fa perdere irrimediabilmente ogni senso alle cose”.
Strano, facevo notare a mia volta in una risposta al commento, che un’impossibilità sì devastante non venga gestita con un suicidio invece che con l’assassinio dell’altra.
Infatti, anche quando il suicidio c’è, questo viene immancabilmente preceduto dal femminicidio. Prima ti ammazzo perché la colpa della mia impossibilità di vivere è tua e poi mi tolgo di mezzo per non avere conseguenze da quell’atto e/o per sancire agli occhi del mondo la tua colpa: sei tu, sia chiaro, che hai scatenato la mia follia omicida, altrimenti nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto. Questa la filosofia di fondo di un femminicidio seguito da suicidio, che dunque non si allontana di molto dallo schema consueto: se non sei esattamente come io ti voglio, ovvero prona ai miei desideri e ai miei voleri, se ti discosti dalla donna fantasmatica che ho forgiata nel mio immaginario, io ho il diritto di uccidere te, donna reale.
Un diritto non legale, ovviamente, ma che viene vissuto e agito dai soggetti in questione come se lo fosse. Di “femminicidio” però, guai a parlarne, perché il termine denuncerebbe “una precisa strategia politico-ideologica” , che nulla avrebbe da spartire con la realtà.
Sull’origine del termine in questione, importato dai paesi latino-americani, molto ci sarebbe da scrivere: per brevità rimando all’articolo esaustivo di Barbara Spinelli dal titolo “Perché si chiama Femminicidio” , anch’esso apparso su La 27ª Ora del Corriere. Per parte mia mi soffermo su un dato abitualmente taciuto, estraendolo dal raffronto tra elementi comparabili presenti nella nostra lingua italiana, quali “parricidio”, “matricidio”, “fratricidio”, “infanticidio” e, perla tra le perle, “uxoricidio”. Cito dal Sabatini Coletti, ma potrei indicare anche il Treccani o altro dizionario: “uxoricidio”, “delitto di chi uccide la moglie o, per estens., il marito” . 

Ma che combinazione! In una lingua che utilizza il maschile per assorbire e nascondere il femminile, s t r a n a m e n t e si verifica il fenomeno inverso nel caso di assassinio del coniuge. Il termine per indicarlo nasce da “uccisione della moglie” (uxor-uxoris) e solo per estensione include l'uccisione del marito. Come mai? Quasi scontato: perché il fenomeno quantitativamente rilevante è ab origine l’uccisione delle mogli e non quella dei mariti.
Di fatto, ciechi di professione, il termine “Femminicidio”, oggi adottato dalle donne in Italia, trova la sua legittimazione linguistica già lì.
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