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Femicidio. Corredo Culturale  Dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere

Femicidio. Corredo Culturale Dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere

Queste pagine nascono da un lavoro di analisi sul femicidio che la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna porta avanti dal 2005 grazie ad un gruppo ormai consolidato di ricerca, che lavora a titolo gratuito, composto da volontarie, socie e pe

Martedi, 26/11/2013 - Barbara Pinelli

Barbara Pinelli è docente di antropologia presso l’Università di Milano-Bicocca.



Femicidio. Corredo Culturale

Dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere



Circola ancora l’idea che la violenza consumata dentro le mura domestiche o nei contorni di una relazione fra uomo e donna sia affare privato. Eppure, scorrendo le pagine del testo Femicidio. Corredo Culturale curato da Cristina Karadole ed Anna Pramstrahler per la Casa delle donne per non subire violenza quel lungo elenco di nomi di donne uccise da compagni o ex-compagni, parenti o clienti a cui ci si trova dinanzi esclama a gran voce la responsabilità del silenzio istituzionale e politico che ancora circonda la violenza agita dagli uomini contro le donne. Femicidio indica gli omicidi delle donne compiuti da uomini. Strettamente legato al fenomeno del femminicidio che, in senso più vasto, comprende tutte le forme di violazione, sopruso e sopraffazione esercitate da uomini e destinate a ledere l’integrità fisica, sociale e psicologica delle donne, il femicidio è un’espressione che identifica la violenza più estrema e quella conclusiva, ovvero la morte delle donne provocata da uomini. Questa parola – che dovrebbe riecheggiare ogni volta che un uomo uccide una donna - mira a sottolineare la dimensione sessuata della violenza e la sua non neutralità da un punto di vista di genere.

È importante, e insieme ritardataria, la recente ratifica della Convenzione di Istanbul. L’assenza però di un interesse istituzionale sistematico non porta con sé l’assenza di un discorso che le donne stesse – e in parte anche molti uomini - stanno costruendo intorno alla violenza come fatto sociale e culturale. Articoli, ricerche come quella descritta, pratiche ormai consolidate messe in piedi da luoghi come i centri contro la violenza sulle donne, movimenti di protesta, voci e storie delle singole donne o di collettività si muovono in contrasto ai modelli culturali egemonici, proponendo un corredo culturale dove non sono l’asimmetria di potere fra uomo e donna e la sopraffazione del maschile le costanti strutturali. Non è un caso che il titolo del libro curato da Cristina Karadole ed Anna Pramstrahler si intitoli «Femicidio. Corredo Culturale». Corredo culturale è davvero una giusta scelta editoriale, sottolineando la necessità di considerare la violenza come un fatto storico, sociale e culturale. A queste narrazioni e voci – antagoniste ai linguaggi e ai saperi pregni di categorie sessiste, ripetitivi di modelli gerarchici sui generi e insieme capaci di produrne altri altrettanto violenti – occorre dar spazio.

Questa raccolta di saggi esce per il secondo anno consecutivo, offrendo, rispetto alla prima, una versione aggiornata e più completa. Essa nasce da un lavoro di analisi sul femicidio che la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna porta avanti dal 2005 grazie ad un gruppo ormai consolidato di ricerca, che lavora a titolo gratuito, composto da volontarie, socie e personale esperto. Il testo è costruito su un’unica fonte documentaria, la stampa. Ovvero, articoli di giornale, recuperati sul cartaceo oppure online, che hanno riportato uccisioni di donne da parte di compagni o ex-compagni o uomini a loro legate, compresi i clienti delle prostitute. Se da una parte sopperisce alla mancanza di dati ufficiali, dall’altra denuncia l’assenza di un osservatorio che in modo strutturato raccolga dati sulla morte delle donne per violenza maschile.

Una singola storia di violenza, anche la più intima e la più nascosta, può essere compresa e combattuta solo se posta dentro ad un orizzonte sociale e culturale più ampio in cui, oltre alla violenza direttamente esperita, anche le forme di violenza simbolica e sistemica storicamente sedimentate sono considerate e prese in analisi. Nella sua singolarità, ogni relazione fra uomo e donna caratterizzata dalla violenza parla per sé e al contempo parla degli immaginari e dei modelli storicamente costruiti attraverso cui si perpetuano, e si consolidano, asimmetrie di potere, dominio e subalternità. Si pensi alle modalità di narrazione della violenza: la violenza, e in modo specifico il femicidio, è quasi sempre raccontata nella sintesi di un atto del momento. Questa forma narrativa circoscrive la violenza in uno spazio temporale ristretto, «il folle gesto» conseguente a gelosie o ad azioni di cui la donna appare responsabile. Essa è potente e pericolosa perché porta la violenza fuori dalla storia biografica di quella specifica relazione fra uomo e donna, e fuori dalla storia sociale, ovvero la svincola dai modelli di genere storicamente sedimentati. È urgente rintracciare la profonda dimensione storica di potere che ancora disciplina le relazioni fra uomini e donne. La maggior parte delle violenze, compresi i femicidi, non avvengono per mano di sconosciuti o soggetti occasionali, né, soprattutto, sono spiegabili con gelosie, raptus, momenti di ira estemporanei. Sono al contrario frutto di lunghi maltrattamenti, stalking, persecuzioni. Fra uccisore e uccisa, come le pagine del libro documentano, vi era, o vi era stata, una relazione intima, di conoscenza o di scambio sesso denaro. Questi elementi – del tutto rilevanti per costruire un discorso sensato e reale sulla violenza e nello specifico sul femicidio – dicono chiaramente che occorre rintracciare delle costanti nei modelli di genere e che il sistema patriarcale si ripresenta, rafforzato, laddove le donne sfuggono o reagiscono alla sottomissione ad esse culturalmente richiesta. Alle spalle della morte di una donna per mano di un uomo scorrono maltrattamenti, minacce, violenze e soprusi fisici e psicologici. Scorrono altrettanto denunce e richieste di aiuto più o meno esplicite, oppure l’incapacità da parte di operatori, reti amicali o parentali di cogliere i segni della violenza, o ancora una profonda solitudine sociale. La ricostruzione dello scenario storico e biografico – che il testo propone e difende - smantella immediatamente importanti stereotipi: mostra come le donne chiamate vittime siano di fatto soggetti attivi resi vulnerabili da esperienze pregresse di violenza, e come la violenza sulle donne non sia da considerarsi un fatto fuori dall’ordinario, eccezionale rispetto al mondo quotidiano e sociale, esperienza che si consuma fuori dalle relazioni di intimità o di conoscenza. Essa non è un accadimento estemporaneo, dove l’uomo assassino è legittimato perché «accecato dalla gelosia» o «incapace di reggere una separazione o il no di una donna» e il suo atto relegato «a un attimo di follia» conseguente «ad un folle gesto».

Le pagine di questo libro offrono una descrizione del femicidio in un orizzonte che parte dai numeri delle donne uccise per allargarsi agli effetti combinati della violenza strutturale, simbolica e sistemica. I primi due saggi parlano chiaro. I nomi delle donne uccise si susseguono e arrivano fino al numero 129 solo nell’anno 2012. Le vittime salgono a 177 quando si considerano altre persone – quasi sempre bambini o bambine figli/figlie della donna – coinvolte nell’uccisione. 66 donne uccise nel 2012 avevano una relazione sentimentale con il loro uccisore, 18 avevano messo fine al rapporto e le restanti 45 donne avevano altre relazioni di parentela o conoscenza con i loro uccisori. E ancora, 46 donne sono state uccise nelle mura domestiche in cui vivevano con il compagno uccisore, 42 presso la propria dimora. Nell’arco di sette anni (2005-2011), si sono registrati 776 femicidi. I dati sono sempre approssimati per difetto, poiché costruiti solo con i nomi delle donne della cui morte si è parlato nei media. A questi numeri vanno aggiunte le donne la cui morte rimane invisibile agli occhi della stampa e delle istituzioni o la cui scomparsa non è stata mai denunciata. I femicidi sommersi per la condizione di vulnerabilità giuridica, clandestinità o di invisibilità istituzionale vissuta da molte donne straniere rende per esempio ancor più assordante il silenzio attorno a questo scenario sociale. A questi dati, si aggiunge un quadro ancor più drammatico che comprende le conseguenze sociali e familiari della morte delle donne per mano di uomini. Il femicidio infatti non riguarda solo la donna uccisa. Chiara Ioratti e Cristina Karadole, descrivono la eco sociale ed emotiva del femicidio: alle 488 donne uccise fra il 2008 e il 2011 vanno aggiunte 48 persone, di cui 22 bambini o bambine. E ancora andrebbero aggiunti – se i dati fossero documentabili – il numero delle donne morte suicide in seguito a continui e perduranti maltrattamenti, violenze fisiche e psicologiche. Laura Farina riflette sui femicidi accaduti all’interno di uno dei gruppi sociali più stereotipati, costituito dalle donne che si prostituiscono e nel caso specifico della riduzione in schiavitù sessuale. Più degli altri, i femicidi commessi su donne prostitute vengono relegati alla sfera della criminalità e, spesso neanche tanto implicitamente, sono ricondotti ad una responsabilità femminile o ad una scelta di vita delle donne, come se una prostituta, più o meno costretta ad esserlo, perdesse più di altre donne il diritto alla vita in quanto lavoratrice del sesso. Roberta Granelli ed Elisa Ottaviani ricordano come la figura dell’uomo violento si muova su terreno storico culturale definito dal patriarcato, ovvero dal dominio socialmente costruito dell’uomo sulla donna. Questa prospettiva, ben lontana dall’essere una giustificazione alla responsabilità individuale, enfatizza l’importanza di leggere l’atto di violenza in un orizzonte storico-sociale che comprende la costruzione della mascolinità dentro schemi culturali binari che associano l’uomo al potere e al dominio, la donna alla subalternità e all’obbedienza. Laddove le donne sfuggono al controllo e alla sottomissione, ecco che gli uomini violenti agiscono per ripristinare posizioni di potere e dominio. Nei loro rispettivi contributi, Viviana Vignola e Chiara Cretella lavorano sulla violenza simbolica offrendo esempi di immaginari di genere e di sceneggiature sentimentali divulgati dai media. Entrambe paiono ricordarci l’«effetto performativo» delle parole e dei discorsi: storie e narrazioni non sono cioè solo riproduzioni di dinamiche e percezioni sociali, piuttosto costruiscono esse stesse realtà e producono significati e schemi con cui leggere e interpretare. Vi sono pubblicità, romanzi, film, canzoni - anche per adolescenti – che raccontano di donne come fiori da salvare, principesse fragili, corpi violati, da esibire o da sottomettere e uomini il cui dominio diventa fascino, costruendo falsi romanticismi e amori assoluti che hanno un peso nella costruzione dei desideri e delle relazioni fra generi. Lucia Beltramini e Patrizia Romito affrontano la violenza istituzionale. La difficoltà di nominare la violenza subita da parte delle donne abusate e la difficoltà nel riconoscerne i segni da parte degli operatori della salute può infatti esporre le donne ad ulteriori forme di violenza, con il rischio di abbandonarle nella richiesta di aiuto, sino a circondare di silenzio le esperienze di maltrattamento fisico o psicologico. Risalta da queste pagine come la feroce retorica «è caduta dalla scale» oppure stereotipi di genere quali «la violenza accade a soggetti deboli, o riguarda situazioni di degrado sociale o psicologico» siano usati dagli stessi medici come schemi conoscitivi. La violenza come fenomeno rafforzato dalla mancanza di impegno istituzionale e politico è evidenziato negli ultimi due interventi. Petra Crociati e Monica Muntoni sottolineano che solo nel 1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sono stati riconosciuti diritti inalienabili alle donne al pari degli uomini. In realtà, la storia sociale costruita da soggetti non appartenenti a posizioni dominanti si muove spesso all’ombra di quella ufficiale, e la rivendicazione dei diritti da parte delle donne inizia ben prima del 1948 (esattamente nel 1791 con Olympe de Gouges) e arriva sino ai giorni nostri. Alcuni risultati sono la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) del 1981, in seguito integrata dal riconoscimento che la violenza di genere, pubblica e privata, sia lesiva dei diritti umani delle donne, o la Dichiarazione contro la violenza alle donne scritta durante la Conferenza di Vienna del 1993 (poi ulteriormente discussa alla conferenza mondiale delle donne di Pechino del 1995). E ancora, l’istituzione della Special Rapporteur on Violence Against Women con il preciso compito di indagare cause ed effetti della violenza di genere e di incentivare gli stati a adottare leggi e prassi per contrastarla. Gli effetti di questi passaggi sono raccontati da Barbara Spinelli, che offre un resoconto dell’assemblea tenutasi nella sede ONU di Ginevra nel 2012 in cui la Special Rapporteur – Rashida Manjoo – ha illustrato il primo rapporto mondiale comparato sul femicidio e sul femminicidio. Fra i paesi occidentali, l’Italia spicca per l’assenza di un impegno pubblico e istituzionale rispetto alla questione della violenza sulle donne e per la costruzione nel 2009 di una Piattaforma per l’implementazione della CEDAW in Italia sorta fra attiviste, collettivi, esperte, movimenti e società civile per sopperire al vuoto istituzionale. Il risultato è stata la scrittura di un Rapporto ombra in cui si è documentata l’inattività e l’inadeguatezza delle istituzioni italiane nel far fronte alla violenza contro le donne. Dinanzi ad esso, l’assemblea di Ginevra ha raccomandato il governo italiano di presentare un Rapporto nel 2013 sulla violenza di genere nel nostro paese.

Il femicidio possiede un lungo, consolidato e sedimentato corredo culturale. Soprusi, costrizioni, morte parlano di modelli e immaginari culturalmente costruiti intorno ai generi. Il potere dei modelli, si sa, è nella loro ripetizione ed invisibilità: i modelli sono trasmessi e appresi, e di nuovo ritrasmessi, sino ad essere socialmente incorporati e così normalizzati, e come norma divengono invisibili allo sguardo sociale. La via d’uscita va cercata nella messa in discussione delle norme sociali che legittimano la violenza per costruire un diverso corredo culturale e lasciar spazio a traiettorie del desiderio libere dal sopruso. La violazione dell’integrità e dell’intimità del corpo e ogni costrizione di natura fisica o psichica che provoca paura, sofferenza o morte sono rafforzate da forme di dominio indirette, forse più invisibili, ma che devono essere nominate. Violenza strutturale, istituzionale, sistemica e simbolica: aggettivi che indicano i processi di sopruso e dominio storicamente iscritti nei meccanismi quotidiani dell’esercizio del potere, comprese la giustificazione della violenza e le modalità della sua narrazione.

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