Lunedi, 04/08/2014 - Se è da salutare con favore la presentazione delle linee guida relative alla fecondazione eterologa – con ovociti e spermatozoi donati a chi ha problemi di infertilità – qualche perplessità, a mio avviso, suscita il fatto che sarà a carico del Servizio Sanitario Nazionale, inserita nei livelli essenziali di assistenza e finanziata da un fondo apposito per evitare ogni disparità di trattamento o discriminazione economica tra coppie. Preoccupazione indubbiamente lodevole che si basa tuttavia su un presupposto su cui varrebbe la pena di riflettere con un po’ di attenzione : l’idea, cioè, che esista un diritto al figlio. Ma esiste davvero tale diritto? Nella moltiplicazione dei diritti che caratterizza il nostro tempo–non a caso definito da Norberto Bobbio ‘l’età dei diritti’ – occorrerebbe forse interrogarsi sulle operazioni che più o meno disinvoltamente trasformano i desideri in diritti, per giunta – come in questo caso – in diritti perfetti che prevedono una piena corrispondenza con i doveri (ovvero, al mio diritto corrisponderebbe un pari dovere da parte dello stato di soddisfarlo, cioè di contribuire alla sua realizzazione). Premetto che ho accolto con molta soddisfazione il progressivo smantellamento della legge 40, una legge profondamente illiberale nel suo impedire, in particolare col divieto della fecondazione eterologa, la soddisfazione di un legittimo progetto genitoriale. Ma parlare di progetto non significa parlare di diritto, trasformando una facoltà – quella di procreare – in diritto esigibile. Da liberale, difendo e sostengo una sfera di liceità che si è positivamente allargata ma, allo stesso modo, rifiuto l’idea che lo stato debba provvedere alla soddisfazione di un mio, sia pur legittimo, desiderio.
Aggiungo che il sostegno da parte dello stato alla fecondazione eterologa non sembra accompagnarsi ad un sostegno altrettanto forte, sia dal punto di vista finanziario che da quello sociale, all’istituto dell’adozione. Perché tale disparità di trattamento? E’ vero che la procreazione assistita ha al suo centro gli interessi di una coppia e intende rispondere al bisogno di avere un bimbo geneticamente‘proprio’, laddove l’adozione pone al centro l’interesse di un minore di avere una famiglia capace di accudirlo e di amarlo. Si potrebbe discutere a lungo sugli aspetti quanto meno paradossali di una famiglia ‘naturale’solo in apparenza perché basata sull’artificialità delle nuove tecnologie riproduttive…E tuttavia, pur nella diversità delle prospettive, se si parla di un ‘diritto’ al figlio, si dovrebbe non dimenticare che è altrettanto legittimo parlare anche di un ‘diritto alla famiglia’ da parte di un bimbo che già c’è e che ha una storia di dolore e di abbandono alle spalle. L’adozione risponde, appunto, a questo bisogno di ‘famiglia’ e in ciò risiede la sua forza etica e la sua rilevanza sociale e simbolica. Nonostante questo, l’adozione è ancora un percorso a ostacoli, irto di difficoltà di ogni genere: un percorso lungo nei tempi, economicamente oneroso (v. l’adozione internazionale) con esami e colloqui assai severi, tali da scoraggiare spesso gli aspiranti genitori. Un esempio? Una delle coppie protagoniste di quello che è stato definito “un evento avverso”, - il dramma dello scambio di embrioni presso l’ospedale Pertini in seguito ad una fecondazione assistita-- ha dichiarato di avere intrapreso tale strada a causa delle difficoltà incontrate nel percorrere la via dell’adozione. Lungi da me demonizzare chi sceglie la via tecnologica alla genitorialità, purché se ne assuma i costi e il carico, eventi avversi inclusi. Resta, tuttavia, la domanda :perché lo stato dovrebbe premiarla e, in certo modo, sponsorizzarla a spese dell’adozione?
Luisella Battaglia
ARTICOLO PUBBLICATO SU IL SECOLO XIX di sabato 2 agosto 2014
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