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Farida Ahmadi

Farida Ahmadi

La donna del mese - Afgana classe 1957, è stata tra le fondatrici di due associazioni per la tutela dei diritti delle donne

Silvia Vaccaro Lunedi, 10/10/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2011

I mezzi di comunicazione tradizionali come TV e giornali, indipendentemente dalle ideologie e dai flussi di denaro che li governano, sono ancora responsabili dell’orientamento dell’opinione pubblica sui principali fatti che avvengono in Italia e nel mondo. Dell’Afghanistan si parla poco e niente ormai, ora che “la guerra è finita”. Kabul, un nome spaventoso che ricorda il suono delle bombe per cui era tristemente nota, è stata superata di gran lunga da Bagdad, nell’elenco delle città più gettonate durante i telegiornali. Eppure, dopo una guerra, dopo i morti, tra cui migliaia di civili e nonostante la presenza di contingenti americani ed europei, questo paese dalla posizione strategica, non ha risollevato le sue sorti e la democrazia da esportazione pare non abbia attecchito così bene. Per venire alle nostre questioni di genere, la situazione è tutt’altro che rosea. Ce lo ha raccontato Farida Ahmadi, afgana classe 1957, che è stata tra le fondatrici di due associazioni per la tutela dei diritti delle donne. La prima, RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanisthan), nata nel 1977 a Kabul e diventata nel corso degli anni un punto di riferimento nazionale e internazionale per le donne che lottano per i diritti umani e la giustizia sociale, e la seconda in Norvegia dove risiede dal 1991 con l’asilo politico. “Quando nel 1979 è iniziata l’occupazione sovietica nel mio paese, io studiavo medicina all’Università e insieme a molti altri studenti e professori dell’Università, partecipai ad un movimento di resistenza finendo in galera due volte in Afghanistan e una volta in Pakistan. Ogni famiglia del mio paese aveva uno o più componenti uccisi o imprigionati per via delle loro idee politiche. La cosa straordinaria del movimento a cui ho partecipato è che noi combattevamo sia contro l’invasione sovietica sia contro il fondamentalismo islamico. Nel 1982 sono stata invitata a prendere parte al Tribunale Permanente di Parigi e da lì ho iniziato un viaggio di otto mesi in Europa e negli Stati Uniti per raccontare della situazione delle donne all’interno della rivoluzione. Ho conosciuto personaggi straordinari, come Reagan, Margaret Thatcher, Papa Giovanni Paolo II e il Presidente Pertini che è stato l’incontro che mi ha più emozionato. Quando si è avvicinato a me, per presentarsi ha detto “sono Sandro Pertini, partigiano anti-fascista.” Farida, che adesso vive in Norvegia, ha recentemente conseguito un master in antropologia sociale presso l’Università di Oslo e ha pubblicato un libro (Silent Scream, uscito solo in inglese) sul legame tra religione, etnia e cultura, tre fattori che, secondo lei, rafforzano la discriminazione contro le donne, soprattutto delle donne immigrate in Europa. Il libro si basa su una ricerca sul campo, durata nove mesi, durante la quale Farida ha collaborato con tre Istituzioni norvegesi a stretto contatto con le comunità immigrate. “Molte donne immigrate vivono una condizione di isolamento, esclusione e umiliazione. Hanno problemi a trovare lavoro e di conseguenza spesso soffrono la povertà, rimanendo ai margini della nostra società del benessere. Nonostante la Norvegia si vanti di essere un paese aperto e multiculturale, spesso le politiche del governo non fanno che aggravare le condizioni di poca libertà e di sofferenza che patiscono le donne immigrate, a cui è negato il potere di decidere della propria vita. Da molti anni rifletto sulle questioni di genere, con uno sguardo al passato, alle lotte delle donne durante la seconda guerra mondiale e durante le rivoluzioni in Iran e in Algeria, che hanno sempre ottenuto così poco per la loro causa. La consapevolezza di tutto questo e della durissima condizione di vita delle donne afgane mi ha reso femminista. Basti pensare che il mio paese, secondo l’ultimo rapporto ONU, è considerato il peggior posto in cui una donna possa trovarsi a vivere e l’ultima volta che sono stata lì, nel 2009, parlando con dei dottori, ho scoperto quanto sia comune il suicidio tra le donne, considerato da esse stesse il modo più semplice ed economico per mettere fine ad una vita di atroci violenze e soprusi. L’unico modo per aiutare le donne afgane è creare un movimento globale di pressione, e una rete di solidarietà tra nazioni, così importante, soprattutto oggi che gli stati sono strettamente interdipendenti.” Farida è una persona molto ottimista e non perde la speranza che le cose possano cambiare nel suo paese e in generale per le donne del pianeta. Intanto sta lavorando al suo secondo libro, che conterrà le sue memorie tra le quali spicca il ricordo di un nostro grande Presidente della Repubblica.







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