Mercoledi, 01/03/2017 - Articolo di Luisella Battaglia pubblicato il 28 febbraio 2017 su Il Secolo XIX (pag 5)
Casi come quello di Fabiano Antoniani, che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera dopo che un incidente stradale lo aveva reso cieco e paraplegico, ci costringono a rompere la congiura del silenzio sulla morte e a parlare di che cosa è, e sarà sempre più, lo stato terminale della vita, il tratto estremo del nostro passaggio umano in società tecnologiche ad alta medicalizzazione.
Viviamo un mutamento epocale che richiede un esercizio straordinario di ragione e di realismo per un carico di decisioni e di responsabilità impensabili nel mondo di ieri, governato dalla natura e dalle sue leggi. Per questo l’appello di Fabo, che si è sentito tradito da uno stato che lo ha costretto all’esilio per affrontare il suo ultimo viaggio, ci interpella tutti. Al di là delle nostre opzioni di valore, non possiamo infatti non chiederci: prendere volontariamente congedo dalla vita è possibile oggi nel nostro stato? A quali condizioni? Entro quali limiti?
Può forse aiutarci a mettere ordine nel gran disordine un’immagine assai efficace introdotta da Norberto Bobbio per spiegare la classica distinzione tra stato etico e stato di diritto. Lo stato etico – scriveva – è simile ad un generale che indica dove si deve andare, la direzione da seguire disciplinatamente, mentre lo stato di diritto è simile ad un vigile che non ha direzioni da imporre ma si limita a dirigere il traffico per evitare che avvengano scontri e incidenti. So bene che per i nostalgici dello stato etico quello di diritto sembra ben povera cosa, proprio per la sua dichiarata neutralità, la sua assenza di valori forti da imporre e in cui credere. E tuttavia proprio a tale modello è affidata la nostra libertà, la garanzia di quella sfera di liceità che dovrebbe consentire a ciascuno di noi di realizzare il piano di vita in cui trova espressione la nostra identità più profonda.
Naturalmente, ciò deve avvenire senza arrecare danno agli altri: il principio del danno è infatti al centro di ogni teorica liberale, a garanzia del reciproco rispetto della personale sfera d’autonomia.
Per questo, mi chiedo, quale danno ha arrecato Fabo alla società, quale offesa al nostro sistema di valori? “Vorrei poter almeno decidere di andarmene senza soffrire…vorrei poter scegliere di morire… fatemi uscire da questa gabbia…”. Queste le sue ultime parole prima di compiere la scelta tragica per uscire da quello che definiva un inferno, salutando chi amava. Da qui la sua richiesta di essere aiutato a morire, attraverso quello che, in termini tecnici, si definisce ‘suicidio assistito’.
La nostra società accetta il suicidio come un fatto privato, una scelta personale non legalmente perseguibile su cui possono divergere le nostre opinioni. Alcuni di noi riterranno il suicidio un ‘peccato’, un atto di disperazione, di orgoglio, di estrema ribellione a Dio; altri lo riguarderanno come un gesto di libertà, di suprema autodeterminazione, di affermazione di dignità contro una vita non più meritevole di essere vissuta: è il contrasto tra la visione cristiana e la visione classica, di matrice stoica.
Ci si potrà dolere – come taluno ha fatto – che Fabo non sia stato abbastanza eroico o santo da resistere strenuamente alla sofferenza, in nome di un dolorismo che è molto più facile predicare che professare.
Ho incontrato nella mia vita malati paralizzati ormai dalla distrofia muscolare progressiva intenzionati a combattere tenacemente contro la morte, animati da una voglia di vivere inesausta e altri desiderosi di porre fine a un calvario di sofferenze, a un’esistenza avvertita ormai come priva di significato. Se è bene, come taluni sostengono, che la politica stia lontana da certe decisioni che esigono primariamente rispetto e solitudine, è tuttavia suo compito garantire quelle condizioni che assicurino a quanti sono in grado di intendere e di volere, di decidere da sé, se, come e quando morire. Senza esercitare né subire alcuna prevaricazione.
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