Anoressia, bulimia. Oggi sono termini più che conosciuti, ma vent’anni fa, quando uscì questo libro, non se ne parlava ed ebbe l’effetto di una bomba: qualcuno aveva osato rivelare il “segreto di Pulcinella” e, finalmente, tutti si sentirono autorizzati a parlarne, a raccontare, ad analizzare. Da allora il testo è stato ristampato innumerevoli volte e oggi è disponibile in una nuova edizione, arricchita da una postfazione firmata insieme alla figlia dell’autrice. Fabiola De Clercq, che ormai è diventata la vittoria sui disturbi alimentari per antonomasia, ha fatto del suo dramma un progetto di vita, per aiutare le persone risucchiate nello stesso tunnel, e nel 1991 ha fondato l’ABA, Associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, la bulimia e i disordini alimentari (n°verde 800 16 56 16 e il sito www.bulimianoressia.it).
I divoratori di libri hanno spesso l’abitudine di marcare le pagine che leggono, sottolineature, asterischi, rimandi. Questo è un libro destinato a essere sepolto da segni, punti esclamativi, note. Da prendere e riprendere in mano, e ogni volta andare a rivedere, senza capacitarsi di come l’autrice sia riuscita a descrivere sé dandoci la netta sensazione di guardarci allo specchio. Molto probabilmente, chi prenderà in mano questo libro lo farà perché questa malattia se l’è portata nella carne, o se la porta ancora, o pensa di esserne uscito ma sa che non è vero, o ha qualcuno accanto che ne soffre e non sa come fare. È un libro che scuote, che spiazza per schiettezza e chiarezza. È un libro che può far male, perché strappa via le vesti che con tanta fatica si cerca di cucirsi addosso, per nascondersi ai propri occhi e a quelli degli altri. È una storia dura, importante: si parla di madri incapaci d'amare, di abusi su bambine, di rifiuto del cibo come rifiuto d'amore e nello stesso tempo come voragine d'amore. Incolmabile. Un libro da leggere, assolutamente. Perché è un libro che fa bene, che riesce a non farti sentire sola e a capire che guarire si può. Ma è anche una denuncia: forte, inappellabile, decisa. Alla sudicia patina di omertà che protegge le nostre vite, le singole case, le singole famiglie, tutti coloro che in un estremo trionfo di ipocrisia si indignano per le notizie in TV, mentre fingono di non vedere cosa accade sotto il loro tetto. “Fingere di non vedere significa rendersi complice di dinamiche distruttive”, questo il verdetto, è da qui che inizia tutto, che prende forma in maniera maledettamente seducente “una malattia dell’amore e della relazione”. La storia infatti parte da una violenza in casa, negata e quasi sbeffeggiata, sotto gli occhi di una madre troppo impegnata a vivere la sua vita per poter guardare la figlia, quella figlia che crescendo sembrerà sempre più grande della sua età, più matura, una figlia a cui non c’è bisogno di chiedere dove esca e con chi, perché si sa che ha la testa sulle spalle, a cui nessuno si disturberà a spiegare come sia morto il padre: lei è forte, imparerà, dimenticherà, ce la farà. E così sembrerà, per chi non vorrà prendersi la briga di guardarla. Ma dentro, scaverà il vuoto ancora e ancora, per vedere se dietro c’è qualcosa, forse un senso, un perché. E si passano anni a spezzare i legami con l’altro, con la vita, a fare spazio dentro di sé come se questo potesse saziare la straziante fame di affetto. “Mi sento in colpa di tutto. In un certo senso non ho ancora ottenuto quella che potrebbe chiamarsi una licenza di vivere. (…) E mi chiedo se una persona che non si ama come me possa amarne un’altra. (…) Mi sento già vecchia malgrado abbia solo trent’anni”. Eppoi la sfibrante stanchezza, la pessima opinione di se stesse, l’incapacità di appoggiarsi agli altri, l’identificazione con la malattia, l’analisi, l’angoscia, l’insicurezza, la tenace diffidenza verso gli uomini. Tutte tappe di un tunnel senza pietà caratterizzato dall’incapacità di “rischiare di vivere”.
“Tutti abbiamo una versione personale della nostra storia, una versione per soffrire un po’ meno o un po’ meno a lungo per ciò che fa soffrire”. Questo libro è un dono: offre l’occasione, attraverso la storia di Fabiola, di ripercorrere la nostra, di ricostruirla, senza orpelli né finzioni. E senza omertà. “Non ho scritto questo libro per curarmi, ma per rompere il silenzio. Un silenzio promosso dall’ignoranza”.
Nella postfazione, la figlia dell’autrice, bambina, ammonisce la madre: “Mamma, se non mi guardi non esisto”. Qui sta la chiave.
Questo libro dà la possibilità di dire “anch’io”. Ma anche di distogliere lo sguardo dalla finestra e di guardare in casa: guardiamo i nostri figli, chiediamo loro come stanno, ricordiamoci di dire loro quanto sono belli, quanto sono importanti. Solo se ci concederemo di guarire, di lasciarci andare alla vita, sapremo esortarli a fare lo stesso. Leggete questo libro.
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