Martedi, 28/05/2013 - Le ragioni del femminicidio sono profondamente radicate nella cultura politica, anche quella Italiana.
Lo scavo ossessivo nei pareri tecnici e nella genesi di ogni singolo gesto, finiscono per far perdere di vista la dimensione vera del processo che include il femminicidio tra gli elementi di mantenimento dei rapporti di potere tra donne e uomini, nonché tra poteri.
Il giovane assassino di Fabiana avrà avuto mille motivi per desiderare di ucciderla, ma infine ha scelto e l’ha uccisa esibendo il suo diritto a dominare. Questo il movente, il retaggio di un diritto tramandato senza essere detto, respirato nell’aria, così certo da rendere inutile ogni comandamento.
La morte di Fabiana non è stata frutto di un gesto folle, è stata uccisa perché la sua vita, il suo essere umana non è un valore più forte del suo essere proprietà di qualcuno. La violenza sulle donne, il femminicidio è considerato qualcosa di meno che un reato contro la persona. Chi uccide non è folle, se non in una insignificante percentuale, chi uccide lo fa perché non attribuisce una vera qualità umana alla sua vittima, la considera un oggetto, una sottospecie che non può mostrarsi né riottosa né incline a prendere decisioni per sé. Chi uccide una donna vuole confermare il suo ruolo di capobranco, anche se quel branco è la sua sola vittima. Questa non è una malattia né una condizionamento al quale non si può disobbedire.
Chi uccide una donna sa che potrebbe pagare molto poco: il gioco vale la candela. Chi uccide calcola.
Questa che non è una malattia, questa che è una scelta calcolata, è la reificazione di un’idea colpevole e diffusa. Come diffusa è la responsabilità di ogni singolo gesto. Secondo la logica malata del nostro sistema, la responsabilità non si concretizza in risarcimento e riparazione, in prevenzione concreta, bensì nel perdonismo verso gli esecutori del femminicidio, col pretesto di spiegare e capire. Ma spiegare e capire sono cose molto serie, e la solidarietà non è perdonismo.
Il momento di massima attenzione mediatica a questo tipo di reati convive con il disorientamento politico e sociale generato da una crisi economica che ha spinto allo scoperto tutta l’incapacità dei governi a rispondere e ad agire sul piano dei diritti umani. Chi scrive sui giornali e che parla attraverso il mezzo televisivo e che sceglie i titoli, sa di orientare e sa che l’orientamento è più stringente se chi legge ed ascolta ha meno tempo per elaborare i messaggi.
La famiglia di Fabiana, si legge, non intende parlare, eppure i titoli riportano che la madre considererebbe l’assassino una vittima, e che il padre parlerebbe della sua consapevolezza sulla pericolosità del “fidanzatino” della figlia.
Non è dato sapere quanto siano fondate queste affermazioni, ma sono diventate dei titoli.
Titoli che di fatto fanno pensare ad una vittima messa sullo stesso piano del suo assassino, e che fanno pensare ad una Fabiana pervicacemente orientata a farsi uccidere.
È già successo con Rosaria, rimasta viva, nonostante sia stata massacrata di botte dal marito, tanto da aver subito l’asportazione della milza, perché voleva partecipare ad un concorso di bellezza, che intervistata ha rilasciato una curiosa dichiarazione: “fuori lo perdono, ma dentro no”. Dietro quella curiosa dichiarazione c’è la pressione di avvocati, famiglie e media.
C’è un teorema che deve assolutamente essere dimostrato: le vittime non accusano i loro carnefici. Un teorema caro a chi orienta le opinioni.
Rosaria è menomata, Fabiana non c’è più: quello che è fatto e fatto, ora bisogna pensare ai carnefici, che con queste premesse torneranno a fare quel che fanno.
Chi dice di voler cambiare la cultura non fa nulla per cambiarla.
E i modi di cambiare ci sono, senza odio ma con grande serietà. Quel ragazzo che ha ucciso deve pagare, e capire, senza assurde attenuanti. Anche chi lo ha educato dovrebbe pagare qualcosa di più che non il patimento di un dolore che, per quanto atroce, può divenire e diverrà un ricordo.
La cultura si forma anche, se non soprattutto, sulle regole che se in Italia queste sono vaghe e sconclusionate, pur sempre ci sono. I presidi e gli insegnanti, i padri e le madri, se sanno “possono” segnalare i loro sospetti al tribunale dei minori. I compagni di scuola “possono” parlare prima con l’autorità più vicina.
Fabiana è morta, bruciata viva come si fa in guerra e le sue sofferenze devono continuare a bruciare, se davvero si vuole cambiare. Il perdono verrà dopo nella misura in cui l’assassino sarà capace di comprendere che una vita di donna cancellata è un buco fisico che va colmato con gesti riconoscibili e pubblici. Diversamente lui e gli altri come lui saranno pietre dello scandalo che ne spargono altre.
Non si può scrivere di Fabiana senza dire che la legge contro le violenze in Italia è una pura formalità, e che il parlamento deve intervenire presto e bene, in modo che tutti leggano nelle regole il loro obbligo di fermare chi vuole uccidere.
Ancora, chi scrive di Fabiana come chi scrive di Rosaria deve dire che le poche regole esistenti devono essere applicate. Abbandonare i teoremi sarebbe il primo segno di buona fede.
Tra promesse ed esecrazioni, impegni presi il 25 novembre e soprattutto tanta insopportabile retorica nei primi cinque mesi del 2013 le morti di donna, conosciute, sono 34, nessuna era inevitabile e nessuna è stata evitata.
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