- In Belgio l’eutanasia sui minori è prevista per legge. Il dibattito si infuoca tra chi difende la vita e chi si interroga su che cosa è vita.
Stefania Friggeri Domenica, 30/03/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2014
Nel romanzo “Amatissima” della scrittrice afroamericana Toni Morrison una schiava fuggitiva, quando ormai comprende che sta per essere catturata, uccide la figlia che aveva con sé: perché non venga costretta a lavorare oltre le sue forze, perché non subisca violenza (percosse e stupro), perché non sia trattata come una “cosa”, anziché come un essere umano. Un gesto sconvolgente oltre misura perché viene compiuto da una madre, da “sua” madre. E reazioni simili, provocate da un sentimento di raccapriccio ed incredulità, ha suscitato anche la proposta di legge votata in Belgio che estende l’eutanasia ai minori. I quali se tormentati da “una sofferenza fisica costante e non sopportabile, che non può essere alleviata e che viene prodotta da una malattia grave e in incurabile” possono chiedere di porre fine alla vita, col consenso dei genitori e di uno psicologo che attesta la loro libertà di decidere. Ma questa proposta di legge, che ha scatenato un accalorato dibattito, viene letta dai suoi detrattori come il tragico esito dell’alleanza storica fra il materialismo socialista e l’individualismo del pensiero liberista: il primo ha ridotto la dimensione umana ad una massa indistinta senza volto, il secondo l’ha semplificata nell’io individuale. Famose, fra le numerose e diverse citazioni, quella dell’economista liberale Stuart Mill: “Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano”, parole che progressivamente e lentamente, ma inesorabilmente, hanno guidato le donne sulla strada della rivendicazione: “l’utero è mio e lo gestisco io”.
Ma su quell’utero la Chiesa cattolica ancora oggi afferma la sua sovranità, come è accaduto per secoli quando la fede religiosa, e dunque l’ossequio alla Chiesa, era talmente compenetrato nelle coscienze e pervasivo nella società da condizionare la vita privata e pubblica, il potere politico, le forze economiche e persino le cognizioni scientifiche (vedi Galileo). Oggi nella società secolarizzata le cose sono profondamente cambiate e infatti le argomentazioni dei religiosi contro l’eutanasia prendono spunto e si fanno forza della cultura del welfare: se il mio corpo è mio, se la mia vita è mia, l’io è ridotto ad una proprietà privata e perde la sua qualità fondamentale di persona, di un io cioè che entra in relazione con gli altri, si “prende cura”, si fa compassionevole, solidale e dunque umano. E allora, se Welby ha chiesto l’eutanasia, è lecito dedurne che Mina, o per egoismo o per ragioni ideologiche, non ha avuto un atteggiamento solidale verso il marito? Si chiede Galimberti: “Che cos’è la vita? La semplice animazione della materia…o il rispetto dell’individuo, della sua coscienza, della sua deliberazione che proprio il cristianesimo, e non altri, ha eretto a valore indiscusso?”. Secondo Galimberti infatti dobbiamo distinguere fra la “morte umana” e la “morte biologica”, quando la vita è un puro processo organico e il paziente viene espropriato di quello che la vita rappresenta per lui; e conclude: “l’argomento della Chiesa cattolica è troppo generico, quando non addirittura decisamente materialistico, se riduce il concetto di ‘vita’ al semplice prolungamento biologico dell’organismo”. Anche il prof. Veronesi si è interrogato sul ruolo del diritto nelle questioni bioetiche, ovvero se sia opportuno fissare dei criteri razionali per affrontare i problemi morali e giuridici generati dal progresso stupefacente delle biotecnologie; pur essendo a favore dell’eutanasia, anche perché in alcuni casi il ricorso alle cure palliative per alleviare il dolore non funziona, di fronte alla legge sull’eutanasia dei minori proposta in Belgio, il prof. Veronesi pensa che “non ci sarebbe bisogno di una legge. Una decisione così drammatica non può essere presa che volta per volta, a discrezione delle coscienze.” Vale a dire: dal momento che le norme giuridiche sono sempre regole astratte e generiche, lontane dalla realtà e specificità dei casi concreti, il singolo caso, unico ed irripetibile, va lasciato alla decisione dei medici, dei genitori e dello stesso paziente, se già in grado di intendere.
Ma qui si entra nel campo minato delle questioni etiche, delle decisioni personali prese nell’intimo della coscienza: dove, come dimostra il caso del’aborto, il diritto, se è rigido e punitivo, finisce per essere ignorato e produce solo clandestinità, laddove un diritto “mite” (come sempre nei casi di coscienza raccomanda Zagrebelsky) permette di affrontare i problemi più drammatici in un clima solidale, anziché in quello penalizzante della solitudine. Ma la posizione della Chiesa, anche all’interno di una legislazione rigida e severa sull’eutanasia, rimane ostile a qualsiasi normativa in cui vede il piano inclinato che porta alla banalizzazione della morte, alla sua burocratizzazione: attraverso la documentazione cartacea e le procedure di rito la morte, come ha denunciato Papa Francesco, diventa simbolo di quella “cultura dello scarto” che ha infettato e corrotto la società contemporanea, privandola del carattere di comunità solidale. Non solo: nell’eutanasia neonatale c’è anche l’estendersi oltre misura del potere dei medici, divenuti ormai i veri decisori nel campo di una medicina specialistica sempre più progredita, ove le biotecnologie creano dilemmi gravissimi (vedi un caso già discusso in tribunale: se, dopo aver partorito il bambino, la donna che ha messo a disposizione il suo utero rifiuta di consegnarlo alla madre “affittuaria”, a chi va affidato il neonato?). Dilemmi gravissimi però anche per i medici, come dimostra il “Protocollo di Groningen” sull’eutanasia neonatale applicato in Olanda su richiesta dei medici che non tolleravano più la responsabilità di tenere in vita neonati con patologie gravissime, dolorose ed irresolubili; patologie di cui la gente comune non ha la minima idea, come documenta il dottor Verhagen nel numero 9/2013 di Micromega: “L’impulso a redigere il Protocollo ci venne al tempo dall’enorme dilemma in merito al migliore intervento da adottare per una neonata affetta dalla forma più grave di una malattia cutanea letale chiamata Epidermolisi bullosa”, (ogni volta che il bimbo viene toccato, la pelle si stacca provocando ulcere dolorose che, quando vengono curate, procurano altra sofferenza; anche il tessuto che ricopre la bocca e l’esofago viene distrutto mentre si procede, per intubazione, a nutrirlo). “I genitori chiesero l’eutanasia… Il timore di poter essere perseguiti legalmente per omicidio doloso, tuttavia, ci costrinse a rifiutare la richiesta… Quando ci fu riferito come la bambina era morta tre mesi dopo, decidemmo di creare un protocollo che ci aiutasse a stabilire in futuro in quali casi l’eutanasia potesse essere la scelta appropriata. Inoltre volevamo che il protocollo contribuisse a disciplinare la pratica dell’eutanasia neonatale e renderla più trasparente.”
Concludendo: se la madre di quella infelice bambina ha chiesto l’eutanasia, lo ha fatto per liberarla da una vita disumana, lo ha fatto perché una donna non è un utero ambulante ma un essere umano e, quando custodisce la vita nel suo ventre, spera una cosa sola: che il figlio nasca sano. Non una madre snaturata dunque ma, come il personaggio di “Amatissima”, una madre che vede nel prolungamento della vita biologica del figlio la “morte” della sua dimensione di essere umano, l’espropriazione di un concetto di vita più alto del puro processo organicistico ispirato ad un grossolano materialismo.
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