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Europa e cinema

Europa e cinema

A tutto schermo - Il premio Lux 2010 per il cinema va al film 'Die Fremde' della regista austriaca Feo Aladağ

Cristina Carpinelli Lunedi, 28/02/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2011

Ho assistito recentemente, presso la sede del parlamento europeo di Milano, alla proiezione di tre film di grande attualità, che erano in competizione per il premio Lux 2010 per il cinema del parlamento europeo. Le opere affrontano tematiche che ci spingono ad interrogarci sulle nostre identità, sui nostri legami culturali e familiari, sui rapporti che regolano le società in cui viviamo. Le storie tradotte in immagini, con le quali entriamo in contatto, ci inducono a riflettere su temi complessi come quello del rapporto con l’altro - lo straniero (il “diverso”), dell’immigrazione e dell’integrazione, delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali della persona, della giustizia e della solidarietà.

Uno di questi film s’intitola “Illégal”, regia e sceneggiatura di Olivier Masset-Depasse (coproduzione: Belgio/Francia/Lussemburgo, 2009). Questa la sinopsi: Tania, un’immigrata russa, vive illegalmente da otto anni in Belgio insieme con il figlio Ivan di 14 anni. In continuo stato d’allerta, la donna vive le sue giornate nel terrore che la polizia scopra il suo status di clandestina, sino al giorno in cui è arrestata e trasferita in un centro di detenzione amministrativa. Madre e figlio vengono separati. Tania farà tutto ciò che è in suo potere per riunirsi al figlio, nonostante la costante minaccia di rimpatrio che pende sopra la sua testa. Attraverso la storia di Tania e le sue peripezie per ricongiungersi con il figlio, ci s’inoltra in alcuni ambienti insoliti: uno di questi è il centro di detenzione amministrativa in cui sarà confinata Tania, insieme con tanti altri immigrati clandestini. L’atmosfera che si respira è pesante. Molte persone “accolte” in questi centri fatiscenti sono dovute fuggire dalla povertà estrema, da dittature e guerre. Eppure, malgrado viaggi spesso faticosi e pericolosi, l’accoglienza che è loro riservata è crudele. Nulla distingue questi centri, attorniati da mura o da filo spinato, dalle prigioni dove sono incarcerati i criminali. Come tali sono, infatti, considerate queste persone, che vengono sottoposte a trattamenti disumani e umilianti. Inoltre, l’unico contatto che hanno con il mondo esterno è rappresentato da un telefono posto sul corridoio, a cui letteralmente si aggrappano dopo estenuanti attese per le lunghe code. Il film tratta anche del rapporto tra guardie-donne e rinchiuse, delle coercizioni e degli abusi praticati dai poliziotti su quest’ultime. Certo, il tema dominante rimane quello di Tania, la sua lotta quotidiana per scappare dal centro e riunirsi al figlio da cui è stata forzatamente separata. Tania è una combattente. È un personaggio duro, che non concede nulla, determinata e pronta a tutto pur di raggiungere il suo scopo. Non ha un uomo. Non ha amici. Del resto, quando si vive clandestinamente, è difficile farsi degli amici. Vive solo per il figlio, a cui vuole assicurare una vita degna di essere vissuta. Raggiungerà il suo fine, camminando costantemente sul filo del rasoio, senza lasciarsi andare o cedere alle pressioni. Andrà oltre il pathos, oltre il dolore…….

Un altro di questi film s’intitola “Akadimia Platonos”, regia di Filippos Tsitos (coproduzione: Grecia/Germania, 2009). Questa la sinopsi: ogni giorno Stavros alza la serranda del suo chiosco, appende i giornali sulla vetrina, sistema le sedie su cui lui e i suoi amici trascorreranno la giornata. Dal marciapiede di fronte, con grande orgoglio di Stavros e dei suoi amici, il cane Patriota abbaia ogni volta che passa un albanese. Stavros e i suoi amici non amano, infatti, gli stranieri, che fanno quei mestieri che da tempo i greci si rifiutano di fare. Né gradiscono i cinesi che si stanno insediando nel quartiere. Questo tran tran precipita il giorno in cui la madre anziana di Stavros si abbandona tra le braccia di un lavoratore albanese, chiamandolo “Figlio mio!” in lingua albanese. In effetti, Stavros poco sa del suo passato. Sua madre gli ha sempre raccontato che, morto il padre, si erano trasferiti ad Atene, quando lui aveva appena un anno d’età. Ma ora gli amici lo guardano con sospetto: sarà greco o albanese? Avrà o no il diritto di cantare la filastrocca razzista “Albanese, albanese, non diventerai mai greco…”? Il perno del film verte su come le persone si confrontano con l’altro, il “diverso”. Xenofobia e discriminazione spesso s’insinuano in tale confronto. Ma la storia suggerirà la tolleranza come primo passo verso l’accostamento allo straniero. L’altro aspetto sollevato dal film è riassumibile in poche parole “il nemico può essere dentro di te”. Stavros viene a sapere che forse è un albanese, il nemico che ha sempre combattuto. Da questo momento si anima in lui un terribile conflitto (come ci si sente nel realizzare ad una certa età che non sei esattamente la persona che hai sempre pensato di essere?), la cui soluzione sarà la presa di coscienza dell’assurdità di definire se stessi solo attraverso la propria identità etno-nazionale.

“Die Fremde” è il film vincitore del premio Lux 2010, regia di Feo Aladağ (coproduzione: Turchia/Germania, 2009). Questa la sinopsi: Umay, una giovane donna di famiglia turca, nata e vissuta per lungo tempo a Berlino, abbandona, insieme con il figlio piccolo, Instanbul, dove si era stabilita con il matrimonio, per fuggire da un’unione di abusi e violenze fisiche nei suoi confronti, e raggiunge di nuovo la sua città natale. Il suo arrivo inaspettato crea scompiglio in seno alla sua famiglia d’origine, combattuta tra l’amore per la figlia e i valori della comunità turca. Dapprima i genitori premono perché lei si ricongiunga con il marito, in seguito la sollecitano a rimandare Cem, il suo bambino, in Turchia dal padre, che lo rivuole indietro a tutti i costi. Ma Umay non intende separarsi dal figlio e, per questo, tra mille difficoltà, cerca di ricostruirsi una propria vita indipendente. Ciò nondimeno, il bisogno d’amore e di sentirsi accettata dai genitori e dai fratelli, la porta a compiere maldestri tentativi di riconciliazione, che porteranno la situazione a degenerare nel peggiore dei modi. Rappresentando il dramma di una famiglia turca che vive in Germania, il film solleva la piaga ancora aperta presso alcune comunità del “delitto d’onore” ma, soprattutto, il tema delicato della (in) comprensione tra molteplici identità individuali e collettive, che secondo le parole stesse della regista del film, non può essere affrontato attraverso la promozione del consenso, quanto piuttosto nel trovare modi nuovi per superare, attraverso il dialogo continuo, divergenze e conflitti che inevitabilmente insorgono nelle società multiculturali. La coesistenza è possibile a patto di andare oltre le ombre delle nostre convinzioni e dei nostri principi. È un atto che richiede coraggio. Occorre spogliarsi delle nostre abitudini ed aspettative per aprirsi senza pregiudizi agli altri. Se l’individuo si barrica dietro il sistema difensivo di strutture antiquate e di principi insormontabili, e cerca di mantenere la sua stabilità e sicurezza attraverso il desiderio di possesso e dominio, allora diventa lui stesso schiavo dei suoi propri principi.

 

 



Feo Aladağ è nata a Vienna nel 1972. Ha iniziato la sua carriera come attrice, ha studiato psicologia e giornalismo. Il suo debutto nel cinema come produttrice, sceneggiatrice e regista è avvenuto con il film “Die Fremde”. È la prima donna regista a gareggiare come finalista per il premio Lux e a vincerlo.



(28 febbraio 2011)



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