Martedi, 14/05/2013 - Erika, 23 anni, aveva ancora il coltello piantato nella schiena, è morta perché donna, nessuno l’ha cercata, è rimasta lì nella campagna incolta senza vita ed è stata trovata per caso.
È stata uccisa, ma era una prostituita e sulla stampa neutra questo non si chiama femminicidio, si chiama “giallo”. Nei telegiornali e nei giornali la notizia è data separata dalle cronache “delle donne uccise”, quasi l’accomunarla alle altre vittime potesse queste ultime offendere.
Erika è morta ed è femminicidio, quello che non entra nelle statistiche. Non si contano le donne come Erika perché il contarle renderebbe il peso della strage reale più insopportabile e rivelatore. E peggio anche perché la morte delle prostitute, soprattutto straniere, è una prospettiva possibile e ammessa, magari parlandone a bassa voce, bassa voce ma non sempre bassa.
Chi vuole il femminicidio lo vuole, ma lo dice in altri modi predicando l’ordine familiare e parlando dell’impossibilità di porre fine al mercato semiufficiale della prostituzione.
Per promuovere un minimo di dignità nel nostro paese è necessario guardare dentro il femminicidio, in tutto il femminicidio: e non basterà contare anche chi non è contata, né basterà dire “mai più”, ma da ora è necessario dire con chiarezza che l’origine di tanto dolore ha patria nel servizio all’ordine costituito e alla famiglia, al desiderio dei clienti, agli utili delle agenzie che smerciano servizi sessuali deresponsabilizzando i consumatori finali mai tenuti a sapere dell’età e della condizione di schiavitù di donne come Erika, che forse ventitré anni non li aveva.
Per le donne che vengono qui con l’inganno e il ricatto, non esistono funerali né l’indignazione parolaia nelle parrocchie e nei consigli comunali, esistono indagini da chiudere al più presto o da non chiudere mai, com'è stato “per la donna di colore” trovata morta (dopo due giorni) nel 2012 in pieno centro, dietro la stazione centrale di Napoli. E nessuno muore di vergogna.
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