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Emanuela Setti Carraro

Emanuela Setti Carraro

Infermiera, crocerossina, amata figlia e sorella, e, sì, moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Venerdi, 02/09/2022 - “La piccola crocerossina salì i gradini del palco, si avvicinò sorridendo, e, porgendo un garofano, disse: «Questo è per lei, generale». L’uomo in divisa arrossì, nascose il fiore in tasca e mormorò: «Grazie»”.
La giovane moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Viene ricordata così nelle commemorazioni del 3 settembre, Emanuela Setti Carraro. Ma lei, come tante altre donne, era molto più del suo stato civile.

Figlia un’infermiera del Corpo delle infermiere volontarie della Croce rossa e di un industriale ufficiale volontario durante la guerra, fiera di quella doppia identità ereditata anche nel cognome, Emanuela sceglie presto di seguire le orme di sua madre. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive alla facoltà di Lettere, ma negli anni della contestazione sessantottina percepisce e disapprova il privilegio concesso solo a pochi e poche di frequentare l’università, e così, presa da una profonda crisi di coscienza, dopo qualche esame abbandona. «Basta! Con l’università ho chiuso. So io dove potrò impegnarmi e fare concretamente del bene.» Entra a far parte dell’Amministrazione attività assistenziali italiane e internazionali, dove si occupa soprattutto dei giovani, dopodiché la scelta della Croce rossa sembra seguire naturalmente. È una scelta che non stupisce mamma Antonia: «Più di una volta, quand’eri piccola, t’ho sorpresa mentre, indossato il velo della mia divisa, ti pavoneggiavi davanti allo specchio.» Emanuela si sente pienamente rappresentata nei quattro imperativi della missione di crocerossina: “Ama, conforta, lavora e salva”. Questo vuol fare: dedicare la sua vita agli altri. «Mi sento ribelle e vorrei cambiare il mondo.»
Lavora nel reparto pediatrico e poi passa in sala operatoria; in due anni ottiene il diploma di infermiera. Decide di dedicarsi ai bambini disabili e per loro riesce ad introdurre l’ippoterapia presso la caserma Santa Barbara di Milano col sostegno del Reggimento artiglieria a cavallo. I cavalli sono sempre stati per lei una grande passione, é salita sul suo primo pony a quattro anni: «Felicità è un cavallo che corre. Vorrei correre verso l’infinito e poter essere soltanto me stessa.» Emanuela decide quindi di sfruttare questa sua passione per fare del bene. Oggi le è intitolata l’Associazione nazionale italiana di riabilitazione equestre e di equitazione ricreativa per i disabili. «Per ottenere le grandi cose è necessario mettere insieme le piccole. L’importante è tenere il passo.»
Sia il suo impegno in Croce rossa sia i suoi legami familiari (i fratelli di sua madre erano ufficiali dell’aeronautica caduti nella seconda guerra mondiale) le conferiscono quel sentimento di amore per la patria che oggi pochissimi hanno. Presenzia spesso ai funerali e alle cerimonie in ricordo dei caduti delle forze dell’ordine durante gli anni del terrorismo. È tra i primi a soccorrere i feriti di Piazza Fontana. Scrive nel suo diario: «In fondo morire con il tricolore sulla bara e con il silenzio fuori ordinanza è morire un po’ meno.» La vita ci avvisa, forse, di quello che ci accadrà?

“È a questo punto che Carlo Alberto entra nella tua vita”, scrive mamma Antonia. “È questa la ragazza che lui conosce; divisa fra lavoro e impegno sociale, amante della Patria, devota verso lo Stato e le sue istituzioni”.
Da quel garofano donato al generale nel maggio del 1980 nasce un’amicizia che presto diventa un affetto più profondo. Emanuela non si stanca mai di parlare e scrivere a quell’uomo convinto difensore del suo Stato, e lui trova in Emanuela una grande serenità che lo aiuta a superare i momenti più difficili. Lui non ha neanche timore di parlarle di Dora, la sua prima moglie, e dell’affettuoso ricordo che lo legherà sempre a lei, ed Emanuela non sente affatto che quel ricordo possa togliere qualcosa al loro stare insieme. «Io ti accetto per quello che sei, per quello che puoi darmi, con la tua vita già vissuta che non mi appartiene, con quella da vivere che potrebbe essere anche mia.» Emanuela appoggia e sostiene il lavoro difficile e pericoloso di lui, convinta che il suo Carlo sarà in grado sempre di raggiungere gli obiettivi che si è proposto. Gli scrive in una lettera: «Non puoi deludere quanti credono in te e vedono l’unica parte pulita di questa sozza Italia.» Lo appoggerà e lo sosterrà fino all’ultimo obiettivo. Quello più pericoloso. «La libertà e il rafforzamento delle istituzioni democratiche debbono essere difesi anche con il sacrificio della vita.»
Mamma Antonia intuisce che quell’amicizia è diventata qualcos’altro, qualcosa di importante. Lo intuisce e comincia ad aver paura. Però vede anche la felicità sul viso di Emanuela, e questo non può che rendere felice anche lei. Senza ancora svelarle tutto, Emanuela le dice che desidera un uomo «col quale vivere sinceramente i miei sentimenti, i miei propositi. Un uomo che all’ultimo istante della sua vita possa tenere la sua mano nella mia.» La vita ci avvisa, forse, di quello che ci accadrà?

A marzo del 1982 il presidente del Consiglio Spadolini chiede al generale di andare in Sicilia per coordinare la lotta alla mafia: il sangue scorre sulle strade di Palermo e i giornali fanno la conta dei morti ammazzati; a fine agosto saranno 100 dall’inizio dell’anno. Il generale aveva già lavorato in Sicilia: era stato trasferito dopo aver consegnato alla magistratura un rapporto in cui definiva la mafia “autentica delinquenza” che si opponeva alle leggi dello Stato, quando per l’Italia la mafia era ancora solo un’onorata società siciliana; più tardi alla Commissione parlamentare antimafia aveva fatto i nomi dei politici collusi. Stavolta è Pio La Torre – deputato e segretario del PCI in Sicilia - a chiedere al Governo di considerare la mafia una questione nazionale e di mandare a Palermo il generale che ha sconfitto il terrorismo. Anche stavolta il generale risponde sì al suo Stato, ma chiede esplicitamente al Governo un impegno “dichiarato” e “codificato”, non è interessato a cariche onorifiche. Confida a sua figlia Rita: «Tra me e La Torre, in un paio di anni, le cose più importanti dovremmo riuscirle a fare.»
Emanuela accoglie questa notizia con gioia e fiducia: «La notizia di Palermo mi rallegra per te, perché ti vedo entusiasta e carico di voglia di fare. È un ruolo difficile e soprattutto per questo lo svolgerai meravigliosamente. Credere in te è credere in qualcosa di bello, di pulito, di splendente.» Ma per assumere l’incarico di Prefetto il generale deve abbandonare la sua uniforme di carabiniere, ed è questa una scelta che gli pesa moltissimo, e che eppure accetta di compiere per il suo Stato. «So che non è stato per te facile decidere. Ma è come se tu continuassi la carriera, come se tu appartenessi ancora all’Arma, a questa grande famiglia per la quale hai sacrificato tutto. Gli alamari d’argento ti accompagnano sempre, come se fossero ricamati sulla tua pelle.»
Il 30 aprile viene ucciso Pio La Torre. La partenza del generale per Palermo viene anticipata a quel giorno. Emanuela segue con trepidazione e ansia il suo insediamento. «Prego che tu possa essere saggio, prudente, calmo. Non fare le cose con leggerezza, quell’arrivo in tassì in prefettura… Sii prudente, mi raccomando, tesoro mio.» Ma a quel punto Emanuela non accetta più di sentire Carlo da lontano, di vedersi ogni tanto, quando si può, quando i suoi impegni e le strade insanguinate di Palermo glielo consentono. Vuole vivere con lui, vuole condividere con lui ogni giorno, nel bene e nel male. Il generale prova inutilmente a dissuaderla, ma infine cede di fronte alla sua determinazione: Emanuela teme più l’assenza di lui che il pericolo accanto a lui.
Mamma Antonia è preoccupata e al contempo felice vedendo la felicità e la determinazione di sua figlia. Ha stima e ammirazione per il generale, ma oppone le proprie riserve sulla grande differenza d’età - di trent’anni - e sui rischi che la sua vita comporta, teme il pericolo e teme che Emanuela non riuscirebbe ad adattarsi al ruolo che quelle circostanze le imporrebbero. «Papà, mamma: qualunque cosa voi possiate dire, qualunque possa essere la vostra decisione, sappiate che io Carlo Alberto lo sposo.»
Il matrimonio, però, non può essere una cerimonia pubblica tradizionale, deve svolgersi quasi in segreto. «Ma di fronte al volersi bene che importanza ha? Le rinunce sono riferite alla cerimonia intima, non alla vita che vivrei accanto a te. Quello che mi rende più felice è starti vicina, ascoltarti, parlarti, condividere il rischio con te. Tienimi stretta a te nelle salite gioiose e nelle discese difficili. Io ti amerò attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, per tutta la vita e oltre.»
E così, il 10 luglio 1982, in un castello del Trentino, lontano dalla realtà di tutti gli altri giorni e sotto il controllo della Digos, la crocerossina e il generale si sposano. Subito dopo aver pronunciato il suo sì, Emanuela si gira verso mamma Antonia, la guarda e sorride. Mamma Antonia si sente a metà tra gioia e malinconia, vedendo allontanarsi la sua bambina. L’indomani Emanuela e Carlo Alberto passano inaspettatamente a Milano a salutare i genitori di lei. Carlo Alberto dice alla mamma: «Hai visto, Antonia, che ti ho portato Emanuela? Vedi che mantengo le mie promesse? E come te l’ho portata in questo momento, te la porterò spesso. Perché mi rendo conto che cosa rappresenti per voi la mancanza di Emanuela.» Sulla porta di casa mamma Antonia abbraccia forte Emanuela. Non sa che lo sta facendo per l’ultima volta.
«Se tu rappresenti lo Stato e io quando sarò tua moglie lo rappresenterò con te, dovremo sentire sulle spalle, oltre a quella grossa responsabilità, anche la forza di quelli che sono morti per questo Stato. Abbiamo alle spalle tanta gente onesta che ci incoraggia. Non ho paura. Se ti dovesse accadere qualcosa, io stessa vorrei condividere la tua sorte.» La vita ci avvisa, forse, di quello che ci accadrà?

Emanuela ama subito Palermo. Si sente accolta con affetto e considerazione, vuole subito bene a Vincenzina, la cameriera, e con lei va spesso al mercato a comprare frutta e fiori, si ambienta col suo aiuto a Villa Pajno. Ha inoltre intenzione di riprendere presto il suo lavoro presso l’ospedale locale e anche di riproporre in Sicilia l’ippoterapia per i ragazzi disabili; è entusiasta nel vedere che Vincenzina, aiutata dal sole della Sicilia, è riuscita a rendere le sue divise di crocerossina ancora più bianche. «I programmi per la mia vita futura sono sempre di bene per gli altri, soprattutto per questo Stato che vediamo così calpestato, insultato e anche così poco efficiente, così poco consono ai desideri dei più.»
Vede Carlo Alberto spesso soprappensiero, impegnato in ogni modo, fisicamente e mentalmente, a realizzare l’obiettivo per cui è andato a Palermo: sconfiggere la mafia. Ma c’è purtroppo una fondamentale differenza tra la mafia e il terrorismo. Il terrorismo era un attacco eversivo contro lo Stato, e per questo lo Stato ha messo in campo tutte le sue forze per sradicarlo e distruggerlo. La mafia è lo Stato. Il presidente del Consiglio Spadolini aveva promesso al generale gli stessi poteri che aveva avuto contro il terrorismo. Il generale pretendeva chiarezza prima di partire, ma l’omicidio di La Torre ha anticipato i tempi e gli ha impedito di iniziare quell’incarico alle sue condizioni. Roma continua a promettere di dare al generale i mezzi di cui ha bisogno, continua a promettere di approvare la legge “La Torre” che introdurrà il nuovo reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, prevedendo importanti controlli patrimoniali e la confisca dei beni ai condannati. Roma promette. Ma non mantiene. Perché la mafia è lo Stato.
Emanuela ha capito. Ha capito che Carlo Alberto – un mito per i Carabinieri e uno scomodo investigatore per l’Italia abituata a vivere di compromessi – è stato mandato a Palermo come parafulmine, senza mezzi, solo per dimostrare che lo Stato ci ha provato, ha mandato in Sicilia l’uomo migliore, ma neanche lui, col suo nome, la sua storia e il suo prestigio, può vincere contro la mafia. Emanuela ha capito che Carlo Aberto è troppo slegato dagli interessi politici per ricevere protezione dalla politica: lo Stato lo usa quando gli fa comodo e poi lo abbandona. Perché stavolta in gioco non c’è solo un’organizzazione criminale chiamata mafia, bensì un intero sistema politico chiamato Italia. Ma Emanuela capisce anche che Carlo Alberto si sente in dovere di continuare a servire lo Stato, anche quando è lo Stato ad assumere le sembianze del nemico da combattere. «Ci sono cose che non si fanno per coraggio, si fanno per poter continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli.» Lui sceglie di parlare ai giovani e agli operai, parla dei loro diritti, che la mafia ha trasformato in favori, offre loro un’alternativa al potere mafioso. Carlo Alberto ama parlare ai giovani perché «hanno gli occhi puliti», perché hanno ancora la possibilità di credere in un mondo diverso. Un operaio gli chiede cos’è venuto a fare a Palermo, la rivoluzione? «No. A far funzionare lo Stato.» E non è questa una rivoluzione?
Emanuela sa, è al corrente di tutto ciò che Carlo Alberto fa e di quello che ha intenzione di fare: lui vuole colpire le fondamenta della mafia, le fondamenta del potere mafioso. Sa che appena arrivato in Prefettura ha dovuto far spostare la sua scrivania in un punto protetto dalle finestre, sa delle lettere minatorie, sa che non beve mai il caffè prima degli altri presenti per timore di essere avvelenato, sa che probabilmente i suoi telefoni sono intercettati, sa che ha trovato parenti di mafiosi anche nel personale della Prefettura. Emanuela comprende che suo marito sta affrontando un nemico diverso e più pericoloso del terrorismo, che è solo a farlo, e che eppure è deciso a farlo per quel senso dello Stato che solo chi ha può comprendere. Lui la avvisa: «Qualsiasi cosa dovesse succedermi, corri subito dove tu sai e ritira quello che sai.» Emanuela sa. E non ha paura di appoggiare e aiutare suo marito. Ogni sera trascrive a macchina la relazione che lui fa della giornata. «Carlo e io siamo veramente felici. Forse un giorno pagheremo questa felicità, ma ora la teniamo dentro di noi, tranquilli, perché l’abbiamo anche meritata. Se deve succedere qualcosa voglio essere con lui.» La vita ci avvisa, forse, di quello che ci accadrà?

Il 10 agosto una telefonata anonima annuncia ad un giornale che “l’operazione da noi chiamata Carlo Alberto è quasi conclusa”. Lo stesso giorno il generale rompe il silenzio rilasciando una dirompente intervista a Giorgio Bocca, in cui chiarisce che il suo obiettivo è la lotta alla mafia, che non chiede leggi speciali bensì chiarezza, ma che gli impegni presi dal Governo non sono ancora stati codificati, spiega che la mafia non è più solo a Palermo ma ha fatto investimenti nelle maggiori città italiane. «Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato.» Dieci anni dopo qualcun altro, a Palermo, confermerà che «si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande».
Forse però qualcosa si muove. In quelle settimane il generale ha cercato appoggi diversi dalla politica romana, e pian piano, forse, si sta creando un gruppo di persone fidate. L’intervista provoca qualche reazione: il Governo promette ancora, promette a breve. «Era ora che si svegliassero e si comportassero veramente da uomini: pensavano forse di avere a che fare con una marionetta di cui tirare i fili a loro piacimento? L’articolo di Bocca ha ottenuto l’effetto desiderato, il tuo umore è migliorato, seppure offuscato da momenti di pessimismo. Io sono sempre lo stesso al tuo fianco.»

La seconda metà di agosto Emanuela e Carlo Alberto la trascorrono nella sua casa di campagna in Irpinia, con i figli e i nipoti del generale. Carlo Alberto ama molto quella casa, vuole trascorrere lì gli anni della sua pensione. Anche Emanuela sogna già quei giorni felici, trascorsi insieme, magari a guardare i bambini che giocano in giardino. «Voglio che ogni giorno trascorso con te sia un giorno pieno di festa, di sorrisi.»
Tuttavia, nonostante Carlo Alberto ostenti ottimismo e serenità, faccia progetti con Emanuela o giochi con i bambini, l’atmosfera appare diversa. Per la prima volta fa controllare un’auto targata Palermo; non l’aveva mai fatto, neanche durante gli anni del terrorismo. La sua tattica difensiva è sempre stata quella di rendere imprevedibili i propri movimenti: non comunica o cambia orari, destinazioni e percorsi. Preferisce non avere grandi scorte, il generale. «Preferisco che, quando l’odio delle persone che mi vogliono uccidere sarà saziato, quei ragazzi ripaghino con le loro azioni la mia morte.»

3 settembre 1982. Emanuela telefona a mamma Antonia da Villa Pajno: «Sono giorni terribili, ma vedrai che ne usciremo. Carlo non è sereno, dentro è teso e preoccupato. No, non gli hanno dato quello che da tempo chiede a Roma: hanno mancato ai patti, temporeggiano e perdono tempo. Carlo Aberto è solo. Non ci sono che io a coprirgli le spalle, a dargli fiducia. Lo difenderò. No, non posso venire a Milano, è inutile che tu insista. Non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento: e chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da quelli che ci dovrebbero tutelare. Ho nostalgia della vita passata nella villa di campagna. Ma il nostro dovere era di ritornare qui, sempre in prima linea, perché questa è proprio guerra, sai?, e delle più difficili da combattere.»
Alla sera, Emanuela va a prendere suo marito in Prefettura. Ritelefona a mamma Antonia da lì. «Adesso fai la brava, mamma: vai a letto tranquilla e poi aspetta la mia telefonata della buona notte. Te la farò da casa, stasera tocca a me. Ah, mamma, ti voglio tanto bene.»
Sono le 21:05.

Emanuela e Carlo Alberto si dirigono verso casa a bordo della A112 guidata da lei. L’agente di scorta Domenico Russo li segue. In via Carini vengono fermati da una raffica di kalashnikov. E muoiono, come aveva immaginato Emanuela, abbracciati, insieme.
Il killer, per essere sicuro di aver compiuto la propria missione omicida, scende dalla moto e spara un ultimo colpo alla testa di entrambi. Anche Emanuela doveva morire. Sapeva troppo, non è stata una vittima collaterale. Aveva scelto di difendere lo Stato accanto a suo marito, e per questo è stata uccisa insieme a lui.

«Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo!»
I mafiosi brindano. A Palermo e a Roma.
«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.»



*Fonti:
Antonia Setti Carraro, Ricordi, Emanuela, Rizzoli, 1983
Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Mondadori, 1984
Attilio Bolzoni, Uomini soli, Melampo, 2012

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