Parliamo di bioetica - Eugenia Roccella ha definito disabile Eluana Englaro, la donna in coma irreversibile da 18 anni. Ennesima puntata di una storia infinita tessuta sulla sofferenza di una famiglia
Battaglia Luisella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2009
Stiamo assistendo con pena e sgomento allo svolgersi della storia infinita di Eluana Englaro il cui ultimo capitolo – o dovremmo dire ‘stazione’ di una inedita ‘Via Crucis’ medico-burocratica? – contempla la sua promozione a ‘disabile’ a seguito di un illuminante intervento di Eugenia Roccella.
La Roccella fa riferimento alla Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili per fondare un dovere incondizionato di cura e di assistenza che riguarderebbe anche la particolarissima disabilità di Eluana. Vale dunque la pena di leggere con attenzione tale documento – entrato in vigore nel maggio del 2008 – che è stato definito il primo grande trattato sui diritti umani siglato nel terzo millennio, un potente strumento per sradicare ostacoli storici come la discriminazione, l’isolamento sociale, la marginalizzazione economica, la mancanza di opportunità di partecipazione alle decisioni in campo politico e economico.
Il testo, ampio e articolato, si compone di un preambolo, di 50 articoli e di un protocollo aggiuntivo che riguarda principalmente le procedure d’appello in caso di violazione dei diritti stabiliti dalla Convenzione stessa. Nel mondo si stima che vi siano almeno 650 milioni di persone con disabilità, l’80 per cento delle quali vive nei paesi in via di sviluppo: si tratta, dunque, di un decimo della popolazione mondiale ma oltre due terzi dei membri delle Nazioni Unite non prevedono per esse, attualmente, nessuna protezione giuridica. La Convenzione, che va a integrarsi con gli altri atti internazionali concernenti i diritti umani già esistenti, ha lo scopo di evidenziare la particolare situazione delle persone con disabilità, al fine di promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, ad una vita indipendente,
alla mobilità, alla libertà d’espressione e, in generale, alla partecipazione alla vita politica e sociale.
Un problema molto dibattuto nel corso dell’elaborazione del documento è stata la definizione stessa di ‘disabilità’. L’art. 1 riporta la definizione sulla quale si è raggiunto l’unanime consenso: “menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali di lunga durata che, interagendo con varie barriere, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nella società”. Una definizione che riesce francamente molto difficile applicare ad Eluana che si trova da ben 17 anni in stato vegetativo permanente!
In essa – e qui mi sembra risieda la sua novità e il suo merito – si insiste non su questa o quella dimensione settoriale del problema, ma su un aspetto generale di grande importanza: quello del ‘disabile’ come soggetto portatore di determinati diritti.
Gli articoli dal 2 al 4 stabiliscono i principi generali e gli obblighi che i Paesi si assumeranno nel ratificare la Carta. Negli articoli successivi – dal 5 all’8 – si approfondisce il concetto di ‘non discriminazione’ nei suoi vari aspetti, riservando tra l’altro una trattazione particolare alle donne e ai bambini, gruppi considerati maggiormente a rischio. Gli articoli seguenti – dal 9 al 19 – affrontano in maniera più dettagliata i vari diritti: quello all’accessibilità dell’ambiente, dei servizi e delle tecnologie; alla protezione in caso di situazioni di rischio o di emergenza; all’eguale trattamento davanti alla legge e all’eguale accesso alla giustizia; alla libertà e alla sicurezza; a non essere oggetto di sperimentazione scientifica – inclusa la sperimentazione medica – senza il proprio consenso libero e informato; a non subire sfruttamento, violenza e abusi; all’integrità personale; a poter scegliere l’esperienza della vita indipendente o integrata nella comunità, potendo accedere ai supporti necessari a tale scopo (ad es. servizi di sostegno domiciliare). La Carta continua impegnando gli Stati ad assicurare i diritti alla mobilità personale (art.20); alla libertà di opinione e di accesso alle informazioni (art.21); alla privacy (art.22); a non subire restrizioni nella propria vita affettiva e sessuale, nonché a creare una propria famiglia assumendo liberamente le proprie responsabilità in merito alla generazione e all’educazione dei figli (art.23); all’educazione integrata (art.24); ad eguali standard di assistenza sanitaria (art.25). Per quanto riguarda gli interventi più specifici relativi alla riabilitazione e all’integrazione nel mondo del lavoro (art.26- 27), viene sottolineata l’importanza di non vederli come interventi isolati ma come componenti di un approccio integrato che consideri, nel loro assieme, i percorsi di riabilitazione, di formazione professionale, di educazione, guardando alla persona nel suo complesso per facilitare “il raggiungimento della massima indipendenza, della realizzazione personale e della partecipazione in tutti gli aspetti della vita”. La Carta prosegue trattando il diritto ad adeguati standard abitativi e di protezione sociale (art.28); alla partecipazione alla vita politica (art.29); alle attività culturali, ricreative e sportive (art.30). E’ prevista infine (art.34) una ‘Commissione per i Diritti delle Persone Disabili’ eletta dagli stati membri, alla quale ogni stato dovrà fornire periodicamente dei rapporti che verranno valutati raccomandando eventuali interventi in collaborazione con gli stati stessi e altre agenzie delle Nazioni Unite.
Alla luce di queste osservazioni, non si può non segnalare, dopo l’iniziale sbigottimento, la prodigiosa estensione, ad opera della Roccella, di un concetto che sembra ormai collocarsi tra due estremi: quello di “diversamente abile”- denominazione eufemistica e politicamente corretta che vuole indicare le abilità plurime e le possibilità comunque aperte a soggetti portatori di handicap - e quello di “diversamente vivo” – denominazione anch’essa eufemistica e politicamente corretta nel suo valorizzare abilità residue e aprire possibilità insperate a soggetti in stato di coma permanente.
Le associazioni dei disabili dovrebbero intervenire fermamente dinanzi all’uso – o abuso – ideologico del termine “disabilità”- e contrastare un’operazione politica assai ambigua il cui paradossale risultato è di equipararli a soggetti che, come la povera Eluana, non hanno una vita biografica ma solo biologica. Oggi assistiamo a un graduale ma irreversibile scardinamento dei tabù connessi colla disabilità. Lo stesso drammatico incremento del fenomeno (dovuto a incidenti stradali o lavorativi o anche l’innalzamento dell’età media della popolazione) ha favorito la crescita di un dibattito che insiste sul fatto che la disabilità è una condizione da porre in relazione con un ambiente fisico, culturale, sociale che non appare in grado di valorizzare le abilità diverse che la persona possiede. D’altra parte, l’esperienza del limite che l’handicap inevitabilmente comporta è una dimensione strutturale dell’esperienza umana, un dato costitutivo – potremmo dire – della nostra natura. Ora tale condizione dolorosamente reale per milioni di persone nel mondo viene usata come arma per impedire, da un lato, l’attuazione della sentenza che consente di sospendere le cure a Eluana, e,dall’altro, per criminalizzare il padre che, anziché prestare la doverosa assistenza, perseguirebbe tenacemente un proposito omicida. A quando la rituale evocazione della barbarie nazista e dei campi di sterminio? In attesa della prossima puntata di una storia indegna di un paese civile, occorre aggiungere che se Eluana è stata ambiguamente ‘promossa’ a disabile, resta prima di tutto una cittadina affidata legalmente a un tutore – il padre – il quale può legalmente decidere in suo nome e per il suo migliore interesse sulla base anche – non si dimentichi – dei desideri da lei precedentemente espressi e che la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997) raccomanda di tenere in considerazione.
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