C’è un nodo da sciogliere per quanto riguarda la lotta alla violenza sulla donna e al bullismo a scuola (cose diverse ma collegate), ed è l’avversione, crescente e sempre più organizzata, da parte del mondo cattolico a quella che chiamano “teoria del gender”. Che la scuola sia il luogo deputato a combattere questi “fenomeni” è cosa che trova tutti d’accordo. E’ lì che tutti i giorni, da quando siamo bambini fino a quando diventiamo adulti, andiamo e impariamo. Impariamo a leggere, a scrivere, a fare calcoli, a risolvere problemi. Impariamo a studiare, ma impariamo anche a relazionarci agli altri. E’ a scuola che incontriamo i primi amici, è da lì che partiamo per costruire la nostra rete di conoscenze. Spesso è lì che viviamo il primo flirt o il primo amore, o addirittura i primi rapporti sessuali (capita!). E’ a scuola che si sviluppano i fenomeni di bullismo, l’aggressione verbale e/o fisica del compagno “debole”, quello che è o sembra omosessuale.
Eppure nel nostro sistema scolastico, che mira alla formazione culturale e civica degli studenti i sentimenti e le emozioni, che sono i cardini delle relazioni, sono ufficialmente esclusi. Non è necessario prenderli in considerazione se si deve insegnare matematica, se si deve spiegare filosofia o se si deve fare una verifica di inglese. I docenti sono costantemente bombardati da aggiornamenti sulla metodologia didattica e sull’uso delle nuove tecnologie, ma dell’educazione ai sentimenti si parla poco o niente. Viene lasciata all’iniziativa dei singoli, a progetti specifici, anzi, le idee su cosa sia questa educazione ai sentimenti non sono per niente chiare. Per lo più viene considerata un’attività a parte e marginale. Ma è attraverso la relazione educativa che l’insegnante costruisce con i propri alunni che si veicolano conoscenze, abilità e competenze, ma anche un insieme di valori, principi, modalità di approccio alla vita che lasciano il segno nei giovani. Sono semi che potrebbero aiutare a limitare i danni di situazioni familiari e ambienti sociali deprivati, difficili. Dove le relazioni sono deleterie e tossiche.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli sforzi anche da parte delle istituzioni per dare uno spazio adeguato all’Educazione ai sentimenti. Tra le tante esperienze a Napoli “La Principessa Azzurra”, progetto che è partito dal liceo scientifico Mercalli e dal GPA della Circoscrizione Chiaia San Ferdinando, è cresciuto includendo sempre più scuole e coinvolgendo sempre più insegnanti di materie differenti. Il tentativo è quello di far emergere all’interno delle normali attività didattiche, le emozioni e i sentimenti, far entrare nella lezione quello che Lea Melandri chiamava il “fuori tema”, cioè il vissuto emotivo personale. Senza che confonderlo con un gruppo di psicoterapia (non lo è e non lo potrebbe essere), senza scivolare verso un pericoloso “maternage”. L’insegnante si mette in gioco in prima persona, vincendo più di una paura e senza rinunciare al proprio ruolo.
Sì, è difficile. Ma non è impossibile. E una volta imboccata questa strada, un passo alla volta, si costruiscono pratiche didattiche nuove, in cui il famoso “fuori tema” ha finalmente diritto di cittadinanza e anzi migliora la qualità dell’apprendimento. Il 25 novembre per alcune classi del Mercalli e una terza media dell’ IC Fiorelli è stata occasione di incontro e conoscenza.
Il video “Syria” dei ragazzi dell’Isis Europa di Pomigliano d’Arco (che ha partecipato al Giffoni Film Festival) realizzato lo scorso anno, ha raccontato una storia di liberazione da un “amore” violento. Insieme ad altri video dei ragazzi che hanno già lavorato su questi temi hanno fatto da “finestra” sulle attività di educazione ai sentimenti messe in campo. All’interno di questo progetto si lavora e si cresce da quattro anni, anche sull’armonizzazione e la collaborazione tra docenti, che si confrontano costantemente su queste problematiche.
Il problema è che, al di là delle affermazioni e dei proclami, su come e a cosa debbano essere educati gli studenti non c’è accordo.
Nel voler combattere la violenza sulla donna emergono, anche negli insegnati, convinzioni profonde, con o senza consapevolezza. Può emergere la visione della donna tradizionale: un essere dolce, debole, bisognoso di attenzione, madre, sorella, compagna. Paradossalmente è proprio da questo modello che nasce la violenza, quando la donna reale non vi si adatta. L’equivoco è frequentissimo.
Assistiamo a intere campagne pubblicitarie, trasmissioni televisive (da “Amore criminale” in giù), messaggi mediatici di vario genere, che cadono rovinosamente in questo errore. La donna non è per definizione debole, dolce, vittima. Può esserlo, come può esserlo un uomo.
E allora? Allora bisogna promuovere la consapevolezza che i ruoli non sono predefiniti, né culturalmente, né geneticamente. Altrimenti l’essere “femmina” è vista come una minorità allo stesso modo dell’essere effeminato (o isolato, o “strano”) e la violenza non è che l’altra faccia della protezione paternalistica. E qui non tutto il mondo cattolico aderisce. La storiella che la donna fu fatta dalla costola di Adamo perché stesse al suo fianco, né al di sopra né al di sotto, è suggestiva, ma riafferma che la donna fu fatta dalla costola di un uomo e per seconda. E’ come “la donna non si picchia nemmeno con un fiore”, frase offensiva perché presuppone la minorità come una condizione esistenziale. Come dice Michela Murgia “Il fatto che si pensi alle donne come a una variante minoritaria della normalità percepita è il cuore stesso del sessismo, per il quale il femminile è un’eccezione e rappresenta se stesso, mentre il maschile è la norma e rappresenta tutti”. Questa citazione, che ha rappresentato e aperto il convegno “Svergognati” organizzato dal Comune e dalla città Metropolitana di Napoli il 25 novembre, è da tenere a mente e rappresenta la punta avanzata di un modo di essere credenti che restituisce alla donna e al femminile dignità e autonomia.
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