La Donna del mese - La scrittrice sopravvissuta alle atrocità di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen racconta la Shoah.
Di Sabatino Guendalina Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2007
Incontro Edith Bruck nella sua casa, nel cuore di Roma. E' bella Edith. Era una bellissima bambina bionda quando, a dodici anni, venne deportata dall'Ungheria ad Auschwitz con la sua famiglia di origine ebraica.
E' riuscita a sfuggire più di una volta alle selezioni del dottor Mengele. E' sopravvissuta alle atrocità di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. E' sopravvissuta e racconta la Shoah. Tutta la sua produzione letteraria è in lingua italiana, la lingua del Paese che l'ha accolta. Vive nella capitale dal 1954. Il suo primo libro è stato pubblicato nel 1959. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue. Da pochi giorni ha consegnato agli editori il suo ultimo romanzo.
"Quanta Stella c'è nel cielo", perché la scelta di questo titolo?
E' un verso di una ballata di Sandor Petofi, un grande poeta del risorgimento ungherese, una specie di Garibaldi che ho studiato a scuola da bambina e ho amato moltissimo. Te la traduco, suona così: ‘Quanta goccia c'è nell'oceano / quanta stella nel cielo / sulla testa dell'umanità quanto capello c'è / quanta cattiveria nel cuore?’ Il titolo mi piace molto, sembra un errore in italiano invece non lo è, spero che gli editori lo accetteranno.
Il romanzo si svolge dopo la liberazione dell'Europa dal nazifascismo?
Si è parlato molto delle atrocità dei campi di concentramento, ma troppo poco, me compresa, del dopoguerra che è stato tragico per i sopravvissuti. L'Europa era distrutta affamata e in miseria, e il sopravvissuto non sapeva dove andare, dove mangiare, a chi rivolgersi. Tra l'orfanotrofio e i parenti che ci tenevano per qualche settimana, eravamo soltanto una bocca da sfamare in più. La nostra vita non valeva niente. Eravamo come persi nel mondo. Io sono andata da un parente all'altro, poi sono finita in Cecoslovacchia, dove il mio libro è ambientato. Avevo quindici anni allora, e lavoravo in una fabbrica di ghette per militari. Abitavo in una casa che era appartenuta ai tedeschi sudeti, i nazisti più cattivi e fanatici durante la guerra, ricacciati in massa in Austria e in Germania alla fine del conflitto. I loro mobili e il letto puzzavano di nazismo. Sembrava che il muro stesso evaporasse l'odio. Mi sentivo sola, senza documenti, sono stata anche in prigione per un giorno e una notte, pensavo di impazzire.
Nel romanzo chi rappresenta la sofferenza, la solitudine, lo spaesamento del sopravvissuto inascoltato?
Anita, la protagonista. E' una quindicenne orfana vittima di una storia d'amore con un uomo, fratello del marito della zia, che la seduce, e quando viene a sapere che è incinta minaccia perfino di ucciderla se non abortisce. Lei con sotterfugi di ogni tipo salva il bambino e fugge verso la Terra Promessa con l'aiuto di un agente israeliano che gira l'Europa per portare i sopravvissuti nella loro Terra.
Lo Stato di Israele è appena nato?
Sì, siamo nel 1948. Anita realizza il sogno della madre che parlava sempre della Palestina. E la madre, morta ad Auschwitz, l'accompagna nel viaggio, simbolicamente, in forma di pesce, nuota sotto la nave e la guida verso la Terra tanto amata, dove lei voleva almeno morire se non poteva vivere.
E in Cecoslovacchia che cosa succede?
L'atmosfera è da incubo, arrestano la gente di notte, le prigioni sono piene, la situazione intorno è abbastanza tragica, la miseria è tanta: il libro finisce prima del colpo di Stato di Gottwald. E l'influenza di Stalin sarà decisiva per la sorte di quel Paese.
Come mai Anita si accorge di essere incinta solo al quinto mese?
Le donne della mia generazione non hanno avuto alcuna educazione sessuale. In più, dopo la guerra, per moltissimi mesi, le deportate non hanno avuto le mestruazioni, perché i nazisti avevano bloccato il ciclo di tutte le donne nei lager.
Anita si accorge di essere incinta grazie al bambino: un giorno, mentre sta per fare la doccia, il piccolo le si butta al seno e succchia, lei subito non capisce cos'è quella cosa bianchiccia, poi si meraviglia che dal suo capezzolo viene il latte. La ragazza scopre così di essere incinta e si meraviglia che il suo corpo, che non valeva nulla, che poteva essere bruciato da un momento all'altro, può mettere al mondo un bambino al posto di un milione di bambini uccisi durante la deportazione.
E' un tornare alla vita?
In un certo senso partorisce se stessa. Lei nasce con questo bambino che è suo, che vuole a tutti i costi, perché è la vita che porta nella pancia.
Nel libro affronti la trasmissione della memoria?
Con Primo Levi abbiamo parlato spesso del fatto che nessuno volesse ascoltare noi sopravvissuti. Anita accudisce il figlio della zia che la ospita, al quale racconta in parte, all'insaputa degli altri, il proprio vissuto come fosse una favola nera, scegliendo ciò che è possibile dire ad un bambino di sette-otto mesi. E' così piccolo, e la prima parola del bimbo sarà la...la...ger.
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