Est Europa - Discriminazioni e crisi finanziaria: le donne vittime predestinate della recessione
Cristina Carpinelli Mercoledi, 13/05/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2009
Per la prima volta dal 1989 cortei di protesta hanno invaso il centro di alcune capitali dell’Est europeo: Vilnius, Riga, Tallinn e Sofia. Altri fermenti si sono avuti in Polonia, Cechia, Ungheria, Slovacchia e Romania. Il malcontento popolare nasce da politiche economiche che dal crollo del muro di Berlino hanno creato ricchezza abnorme per pochi privilegiati e miseria crescente per la maggior parte della popolazione. Le manifestazioni di protesta sono scoppiate nel momento in cui i vari governi liberisti hanno approvato misure anticrisi, che vanno ancora una volta a colpire salari e pensioni.
Il miracolo delle economie dell’est, con tassi di crescita che la vecchia Europa poteva solo sognare, appartiene al passato. Dopo il boom seguito al crollo della cortina di ferro, le giovani democrazie, con la crisi economica mondiale, arrancano ora in una profonda recessione. Risucchiati dalle turbolenze sui mercati finanziari globali, i paesi est europei hanno scoperto di colpo la fragilità dei loro sistemi, passati velocemente da economie centralizzate a economie di mercato senza regole. Crollo delle valute nazionali sull’euro, crisi di liquidità, tensioni sociali per il malessere della gente che teme di perdere il posto di lavoro, tagli al welfare, hanno costretto le istituzioni internazionali (Fmi e Bm) e quelle europee (Bei) a scendere in soccorso delle fragili economie.
Il flagello si è abbattuto su finanza, assicurazioni ed edilizia, settori tipicamente maschili, ma anche su servizi e commercio, dove gran parte delle maestranze sono donne. Molti lavoratori sono espulsi dal mondo del lavoro. Di questi, le donne sono in numero superiore: tenendo conto delle differenze nei livelli occupazionali tra i sessi, si può affermare che le donne sono le vittime predestinate della recessione. L’impatto di genere della crisi ha colpito in modo particolare l’est europeo, già provato dagli anni della transizione, durante la quale i tassi d’ingresso e d’uscita dal lavoro si ripartirono iniquamente a grande svantaggio delle donne. Ma le categorie più esposte a insicurezza, scarse retribuzioni e licenziamenti sono quelle ad impiego vulnerabile. Dentro queste categorie, la percentuale di lavoratrici è molto alta, poiché le donne subiscono più rapidamente le conseguenze negative di un momento di stagnazione economica, mentre beneficiano in ritardo della ripresa. E già prima della crisi, la maggior parte di loro viveva di economia informale con retribuzioni e protezione sociale inferiori.
Quando l’indice GEI (Gender Equity Index) segna regressioni a livello nazionale, per la maggior parte dei casi si tratta di passi indietro nella partecipazione delle donne all’economia. Questo, come afferma il Rapporto 2008 del Social Watch, è il caso dell’Europa dell’Est, che presenta il peggioramento più consistente. Lettonia, Bielorussia, Slovacchia e Macedonia, paesi che nel passato avevano goduto di elevati livelli di partecipazione femminile all’economia, si trovano ora nel gruppo di quelli che hanno fatto marcia indietro. Afferma l’avvocata bulgara Genoveva Tisheva del Comitato di coordinamento del Social Watch: “Nell’’Europa dell’Est le donne, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore, sono sempre più spesso disoccupate”. La Tisheva avverte che la tendenza globale alla liberalizzazione degli scambi del mercato “ha fatto delle donne i lavoratori più flessibili sul mercato del lavoro, soggetti a deregolamentazione, processi d’informalizzazione e abbassamento degli standard sociali e del lavoro”.
Torna ad esplodere in tutto l’Est europeo il consumo esasperato di droga e alcol, che intossicano le vecchie come le giovani generazioni. Ritorna la fame dei primi anni novanta, che è la ragione del degrado sociale e morale di questi paesi: dalla Bulgaria alla Romania, dalla Slovacchia alla Moldavia, giovani donne si dirigono verso i marciapiedi dell’Europa occidentale. I casinò di mafiosi e arricchiti locali ingrassano nella capitale rumena nonostante la crisi. Bucarest è la seconda città, dopo Las Vegas, per numero di casinò. Porno-battelli rondano di notte sul lago Balaton in Ungheria, capitale mondiale della produzione pornografica. All’Est le donne erano, e restano, le vere forze produttive: quelle che ogni giorno e con ogni mezzo compiono il miracolo della sopravvivenza delle famiglie, compreso il reperimento delle scadenti grappe con cui si avvelenano i mariti disoccupati.
La vecchia Europa ha la sua parte di colpe nel peggioramento del tenore di vita dei nuovi cittadini europei. Afferma l’italiano Umberto Musumeci responsabile del coordinamento diritti economici e sociali per Amnesty: “L’Italia? Beh, è un po’ indietro in questo campo. O meglio le grandi aziende stanno lentamente acquistando la consapevolezza del ‘rischio diritti umani’. Stiamo, ad esempio, collaborando con l’Eni per riscrivere il codice aziendale di comportamento. Dove continuiamo a trovare un muro è invece nelle piccole e medie aziende, quelle che numerose investono nell’Europa orientale. Esse non ne vogliono sapere”. Musumeci da anni visita aziende per certificarne il rispetto degli standard internazionali in fatto di condizioni di lavoro. E il bilancio che traccia è sconfortante: “Soprattutto nell’Est Europa, che è il Sud est asiatico degli imprenditori italiani, noto situazioni spaventose. (…) Nelle fabbriche italiane in Bulgaria ho visto bagni impraticabili, orari di lavoro che sarebbe una presa in giro chiamare flessibili, donne in gravidanza licenziate con una scusa. Tutto questo prima o poi si paga”. Centinaia di migliaia di donne dell’Est europeo continuano a sparire ogni anno per essere avviate alla prostituzione forzata nei prosperi paesi occidentali. Ed è questa la ragione per cui il Consiglio d’Europa ha riunito d’urgenza esperti della polizia, dei governi e dei gruppi femministi per studiare una strategia con lo scopo di arginare questo tipo di traffico. La psicoterapista bulgara Nadia Kozhouharova afferma che molte donne rapite o vendute soffrono di seri disordini mentali post-traumatici. E paragona la situazione di queste donne a quella dei superstiti dei campi di concentramento: ogni giorno una lotta per la sopravvivenza. Bulgaria, Romania, Moldavia, Ucraina e Albania sono le principali fonti della tratta delle donne costrette alla prostituzione. Alcune vengono rapite nei bar e nelle discoteche. La maggior parte è allettata con false promesse di lavori normali: ballerine, modelle o hostess. Ragazze ingenue appena uscite da scuola vengono adescate con offerte di improbabili guadagni e promesse di una vita piena di viaggi e di bei vestiti. Ma gli esperti del Consiglio d’Europa affermano che perfino le donne che sanno di andare a lavorare nell’industria del sesso non hanno idea della vita di vera e propria schiavitù che le aspetta. L’Italia, insieme con la Germania, può vantare il titolo di meta principale del traffico di schiave. Si calcola che, solo a Roma, sette prostitute su dieci provengano dai paesi dell’Est europeo. E mentre la crisi economica incalza anche nel nostro paese, togliendo prospettive e sicurezza, il corpo femminile viene sempre più investito di simboli che ne fanno luogo di contesa e di controllo. Sparisce la cittadina, con la sua soggettività e l’inviolabilità dei suoi diritti, compare la preda: stranieri abbruttiti dallo sfruttamento e inferociti si avventano sulle donne italiane in spazi pubblici, mentre italiani, per lo più giovani e in branco, bruciano vivi corpi d’immigrati e imbrattano muri con scritte gigantesche: “albanesi puttane”; “rumene puttane”.
#foto5sx#La crisi materiale offusca le coscienze e il cuore delle persone, ed è agghiacciante constatare come donne dell’Est, ex-vittime del traffico sessuale, diventino a loro volta carnefici. Nell’Europa orientale la percentuale di donne condannate per traffico di esseri umani è superiore al 60%. “Abbiamo bisogno di comprendere le ragioni psicologiche, finanziarie e culturali per le quali alcune donne costringono altre donne alla schiavitù”, ha detto Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Unodc. Il Consiglio Europeo ha pure evidenziato una seconda forma di sfruttamento di esseri umani, che sta prendendo sempre più forma all’Est: il lavoro forzato, anche se la percentuale di donne coinvolte è molto più bassa. Il lavoro forzato è denunciato meno di frequente rispetto allo sfruttamento sessuale, perché nascosto in laboratori sotterranei. “Vediamo solo la coda di un mostro”, ha denunciato Costa. Centinaia di migliaia di vittime sono schiavizzate in squallidi negozi, campi, miniere, fabbriche, o semplicemente intrappolate tra le mura di una casa. Il loro numero sta aumentando con l’acuirsi della crisi economica, che ha come conseguenza una maggiore domanda di beni e servizi a prezzi molto bassi.
Ma come se ne esce, a breve termine, da questo disastro? Per l’eurodeputata ungherese Zita Gurmai, presidente della Sezione delle donne nel PSE, bisogna da subito assumere misure anticrisi, che assicurino alle donne il lavoro. Allo stesso tempo, occorre allargare la loro protezione sociale con sussidi di disoccupazione e programmi assicurativi, partendo dal riconoscimento della loro posizione più debole sul mercato del lavoro. Si deve, infine, inserire maggiormente la componente femminile nei processi decisionali.
Lascia un Commento