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Eco profughi. Le donne prime sentinelle ambientali

Eco profughi. Le donne prime sentinelle ambientali

Uragani, tsunami, siccità. Siccità o troppa acqua strappano popoli alle loro terre. E le donne...

Venerdi, 11/12/2015 -
Piccole isole che scompaiono, popolazioni senza più terra ma anche dati statistici e cifre che si dimenticano. Come il numero delle vittime di un uragano, donne e uomini scampati allo tsunami o al ciclone Katrina. Intere famiglie sfollate e dirottate nei campi profughi. Sono i popoli strappati alla terra dopo una catastrofe naturale. Sono i sopravvissuti alla siccità o alla troppa acqua. Per molti osservatori sono le vittime di un modello di sviluppo che produce rifugiati ambientali, con cifre da capogiro. Secondo un rapporto dell’Environmental Justice Foundation, sfioreranno i 500milioni entro il 2050. Tra questi almeno 200mila, soltanto per l’Africa, potrebbero accedere allo status di rifugiato climatico.

Una emergenza umanitaria progressiva, meno eclatante della guerra, ma che come la guerra richiede protezione. “Environmental refugees”, è stato il termine coniato per gli oltre trecentomila evacuati in seguito all’esplosione del reattore nucleare di Chernobill. Era il 1986. Da allora in ambito accademico la configurazione giuridica si è evoluta.

“Il punto - spiega la giurista Anna Brambilla - è trovare una categoria di protezione umanitaria che connoti i rifugiati climatici dando loro uno status giuridico che li differenzi da altre categorie di migranti e richiedenti asilo”. Un popolo di invisibili, quasi sempre piccoli gruppi sociali, prevalentemente donne, contadini e pescatori che hanno perso ogni capacità di auto sostentamento.

Intere comunità che in ogni parte del globo sono costrette a migrare perché il mare entra dappertutto e il sale brucia la terra. Perché la stagione delle piogge dura meno con conseguenze drammatiche in tutta l’Africa australe, ma non solo. In Senegal per proteggere le coltivazioni si potenzia l’utilizzo di mangrovie, le foreste acquatiche che trattengono l’alta marea. Ai bordi del lago Vittoria si coltivano varietà arboree che fanno da scudo ai problemi legati alle variazioni climatiche.

Piogge che duravano 80 giorni ridotti a 60 e ci si industria importando razze di capre capaci di sopportare lunghi periodi di siccità. Altrove non c’è modo di resistere. In Tchad il cambiamento climatico spinge interi villaggi a continui spostamenti interni, col corollario di tensioni inter-etniche strumentalizzate dal terrorismo di matrice jihadista. Succede in Mali nella comunità peules dove ancora una volta sono le donne le prime sentinelle ambientali.

Attente ai particolari sono le prime a monitorare il territorio perché sono loro da sempre a cercare cibo e acqua per la famiglia. Anche la salute della comunità è in mano alle donne. Erbe medicinali sensibili ai cambiamenti ambientali che non si trovano più mettendo in crisi economie basata sulla sussistenza. Migrazioni fuori confine per i rifugiati del Bangladesh fuggiti da paesi letteralmente sommersi dall’acqua.

Fantasmi che sfuggono alle statistiche e nessuna legge internazionale che li riconosca. Condizioni legate all’ambiente che sono sempre esistite ma che negli ultimi due decenni hanno subito un’impennata. Che si abbracci la tesi negazionista o che si esageri nell’allarmismo resta un dato incontrovertibile: sono sempre meno le terre a disposizione, e senza terra non c’è cibo. “Per questo - prosegue la giurista Anna Brambilla - è indispensabile considerare il contesto di provenienza e distinguere tra ambiente e clima, tra migrant worker e rifugiato climatico”. Un rompicapo per associazioni come l’UNCHR e uno spauracchio per la politica che prima o poi dovrà confrontarsi con una nuova categoria di richiedenti asilo. (foto tratta da: http://www.alovelyworld.com/webmali/htmfr/djenne_marche_malienne.htm)

Emanuela Irace

 

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