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ECCELLENTI E NORMALI? SI PUÒ.

ECCELLENTI E NORMALI? SI PUÒ.

QUARANTENNI DI OGGI / 1 - Intervista a Ilaria Capua

Ribet Elena Domenica, 20/11/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2011

Ilaria Capua dirige il dipartimento di Scienze biomediche comparate presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. Scienziata e ricercatrice pluripremiata, nel 2008 è inclusa fra le cinque "Revolutionary Minds" dell'anno dalla rivista americana Seed. Nel 2006 lancia l’iniziativa GISAID (Global Initiative on Sharing All Influenza Data), network internazionale per la condivisione on-line dei dati genetici dei virus dell’influenza aviaria. Ultimo riconoscimento, in ordine di tempo, il Penn Vet Leadership Award, il più prestigioso riconoscimento del settore.



Come ci si sente a essere la pioniera della “scienza open source”?

Non mi sento la pioniera della scienza open source; questo concetto nasce nel mondo dell’information technology, non l’ho inventato io. Quel che ho fatto è stato semplicemente di usare buon senso, di proporre un modello diverso per la gestione dei dati sui patogeni che possono minacciare la nostra salute, attraverso un sistema open source su web a cui potessero accedere ricercatori di tutto il mondo. Sono stata anche criticata per questa mia scelta, ma se si fa una cosa in scienza e coscienza, perché ci si crede, si deve essere pronti a portare avanti la propria idea. È diventata realtà la piattaforma GISAID sulla trasparenza, concepita da me insieme ad altre persone e ospitata, oggi, dal governo tedesco. È stato secondo me un cambiamento importante, che nasce ai tempi dell’aviaria, e che è servito per l’influenza pandemica suina, perché al di là di ciò che si può ottenere nell’immediato la disponibilità delle informazioni è decisiva per la gestione delle infezioni che arriveranno.



Secondo lei esiste, fra uomini e donne, un diverso approccio bioetico?

Le donne, specialmente le donne che hanno figli, hanno un atteggiamento molto diverso rispetto alle minacce in generale. Si dice che se i capi di stato fossero donne non ci sarebbero più guerre; penso che questo sia vero in parte, proprio perché quando si mettono in pericolo la famiglia e i figli, le donne siano più disposte ad arrivare a compromessi, per il rispetto della vita.



Una delle sue 'maestre' di vita è Rita Levi Montalcini. Inoltre lei ha dedicato il suo ultimo premio a Isabel Minguez Tudela. Cosa rappresentano per lei queste due figure?


Montalcini è stata uno dei miei miti adolescenziali, ho letto la sua biografia e mi sono molto ispirata a lei. È stata un’eroina, una santa Maria Goretti della scienza, si è allontanata dalla famiglia di origine, non si è sposata, non ha avuto figli… diciamo che è stato un modello estremo. Oggi c’è bisogno anche di altri modelli, più attuali, che mostrino come si possa essere una donna di successo e gratificata dal lavoro, anche essendo una donna “normale”; certo, è una vita comunque faticosa, molto intensa, ma ci si può organizzare, insomma si può fare, anche avendo una bella famiglia. Isabel Minguez Tudela è una collega scomparsa recentemente; lavorava a Bruxelles e le ho dedicato il premio perché se oggi c’è una massa critica di ricercatori nel nostro settore è perché lei ha lavorato tanto affinché questo accadesse. Ha combattuto e si è impegnata perché l’Europa diventasse competitiva. Io le sono grata anche perché in lei ho trovato un interlocutore attento, che ha saputo cogliere determinate necessità e mi ha indirizzata bene. Se ho vinto quel premio è anche merito suo.



Marie Curie aveva 44 anni quando ha ricevuto per la chimica il suo secondo Nobel (di cui si celebra il centenario quest’anno), dopo quello per la fisica ottenuto insieme al marito Pierre nel 1903. Il 2011 è stato dichiarato dall’ONU Anno Internazionale della Chimica. Secondo lei è stato dato abbastanza risalto alla sua figura, oppure, se si fosse trattato di un uomo, i festeggiamenti sarebbero stati più significativi, soprattutto in Italia?


Forse se fosse stata una scienziata italiana si sarebbe fatto di più. Non ho elementi per dire che le donne nella scienza vengono discriminate in Italia. C’è tutta una problematica di genere con radici molto antiche che ha influenzato anche la generazione precedente alla mia. Ma in Italia non c’è secondo me una discriminazione attiva verso le donne, più che altro c’è poca attenzione al merito, sia dei maschi che delle femmine. Chi è bravo non riesce a raggiungere posizioni rilevanti perché le scelte sono fatte su altre basi e con sistemi obsoleti. Negli altri paesi si cerca in maniera proattiva la persona più adatta per fare quel lavoro a prescindere da genere, etnia, età, religione, orientamento sessuale - gli enti pubblici sono “equal opportunity employers” - quindi tutti hanno pari opportunità e viene selezionato il candidato migliore. A questa presunta discriminazione di cui si sente parlare si aggiunge anche un’altra cosa: le donne non combattono abbastanza, non osano, la donna italiana ha un retaggio culturale che la condiziona... Tu studierai, ti laureerai, poi appena laureata, o dopo due-tre anni, farai “due pupi per il nonno”. È un retaggio molto pesante ma è anche una scusa, molte donne non osano e non aspirano ad arrivare a posizioni di rilievo perché si chiedono come faranno con i figli. Come faccio io? Non dico che sia facile, è difficile, ma questo non deve diventare una scusa; è vero che ci sono pochi asili, ma i nonni in Italia giocano ruoli che non giocano in nessuna altra parte del mondo. Oggi nessuno ti regala niente, ma fare ricerca in Università o il dottorato, non devono essere un parcheggio, il cui esito ultimo e unico sia il part time. Certo che poi vanno avanti i maschi, anche se le donne sono più studiose, più concrete e più preparate. Questo è un potenziale inespresso, formiamo donne che studiano di più, prima e meglio, e poi si fermano. È un bocciolo che non sboccia, una forza che il paese perde. Ma facciamo anche un po’ di autocritica; un po’ è anche colpa nostra. Ci sono tante donne che fanno una vita faticosa, pensiamo alle tante che lavorano nel privato, pensiamo alle tantissime donne medico che hanno dato un esempio da seguire, che si impegnano e si organizzano per essere ciò che sono e arrivare a gratificare le loro aspirazioni professionali. Può esserci anche la paura di non farcela, ma allora diciamolo che è più comodo portare i figli alle attività pomeridiane anziché lavorare, smettiamo di dire che non c’è spazio per le donne e di usare i figli come alibi. Io sono cresciuta professionalmente senza avere una donna che mi proteggesse o che mi stimolasse. Le donne che lavorano con me sanno che in me trovano attenzione e comprensione; però sono poche quelle disposte a girare sette città del mondo in dieci giorni, per lavoro.



Cosa pensa che abbia fatto la sua generazione per il nostro Paese?


La mia generazione ha aperto una strada alle donne, ha mostrato che le cose si possono fare. Che si può essere eccellenti e nel contempo normali.



A cosa non rinuncerebbe mai?


Alla mia libertà di pensiero. Per me è come l’ossigeno. Anche la mia vita professionale è segnata da questo modo di essere; sono andata controcorrente, è uno dei motivi per cui mi hanno dato il premio alla leadership, per la mia capacità di sfidare i dogmi. Non farò mai una cosa per me sbagliata; piuttosto cambio lavoro, vado in un’altra città, o all’estero… sono una pura, in questo senso.



Ci può anticipare qualcosa sui prossimi obiettivi e progetti della struttura che dirige?


Stiamo lavorando a un approccio interdisciplinare a sostegno della salute pubblica.



Come è riuscita a conciliare l’esperienza della maternità con il suo lavoro?

Ho avuto mia figlia a 38 anni, e anche questa è stata una scelta, ho un marito che mi sostiene veramente, stabilisco bene le priorità e lavoro moltissimo. Inoltre, delego tutto il delegabile; questo può significare non andarla quasi mai a prendere a scuola.



Lei ha più volte sottolineato il valore e la responsabilità della ricerca pubblica e del servizio sanitario nazionale, delle eccellenze e dell’impegno in questo settore. Come si può valorizzare ulteriormente questo tipo di esperienze?


Quando si sta bene non ci si rende conto che tutti gli organi e gli apparati interconnessi fra loro funzionano alla perfezione. Si dovrebbe gioire ogni giorno del fatto che si sta bene, non è una cosa facile e non è affatto scontato. Lo stesso vale per la struttura pubblica. Noi ci lamentiamo quando le cose vanno male, ma questo può capitare. Cosa facciamo invece quando le cose vanno bene? Un bambino viene curato; tante patologie, anche oncologiche, vengono curate; facciamo trapianti; se uno ha un infarto non è spacciato… quarant’anni fa tutto questo non c’era. Bisogna apprezzare di più quello che funziona. Ricordo a Memphis un centro di oncologia pediatrica dove avevano messo in atto tutta una serie di attività per valorizzare quello che fanno le persone che ci lavorano. Infermieri, medici, cardiochirurghi che lavorano sempre e fanno cose che tanti altri non hanno il coraggio di fare; sono degli eroi. Per loro, per i pazienti (e per raccogliere fondi) le strutture dovrebbero fare un po’ di sano marketing: comunicare quello che si fa e comunicare i successi che ci sono ogni giorno.



Cosa si sente di dire agli studenti e alle studentesse che iniziano ora un percorso formativo in ambito biomedico?


Che la ricerca in campo biomedico è una professione meravigliosa. Le occasioni e le opportunità ti passano accanto, ma difficilmente nel giardino di casa tua. Bisogna muoversi, essere dinamici, accettare volentieri di andare a studiare altrove, all’estero o in un’altra città. All’estero ci sono tanti e tante giovani che lavorano nei bar per mantenersi gli studi, non necessariamente ti ci debbono mandare mamma e papà. Certo, per chi è più fortunato è più facile, ma la vita non è facile. Un ricercatore che è stato all’estero, che ha conosciuto culture diverse, ha potenzialità maggiori di uno che si laurea nella sua città e ha fatto il dottorato sempre lì. Bisogna essere competitivi, avere coraggio e determinazione. Dobbiamo capire che l’Italia è sì bellissima però ci sono bellissime cose anche all’estero e abbiamo tanto da imparare. Infine, bisogna sapere che la vita della ricerca non è per tutti. Se la ricerca soffre in Italia è anche per questo. Il dottorato di ricerca non è un parcheggio “intanto faccio questo”. Se uno ha voglia di farsi domande, di muoversi, di conoscere, di viaggiare, lo fa anche a costo di sacrifici, se è stanco, se non ha voglia, domeniche e Ferragosto compresi. Io lo faccio, perché lo devo fare, perché è giusto farlo, ma anche perché ho rispetto di quello che faccio, e lo voglio fare bene.

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