Martedi, 23/11/2021 - Il documentario "Dying to divorce" della regista Chloë Fairweather è stato girato negli ultimi cinque anni, cruciali per la storia e la vita della Turchia contemporanea, e documenta la gravità della violenza maschile contro le donne impunita nel Paese e al contempo l’erosione delle libertà democratiche in seguito all’ultimo colpo di stato. Lo fa attraverso la voce di Impek Bouzkurt, un’avvocata che con coraggio, determinazione e audacia combatte per provare a far avere giustizia alle donne vittime di violenza in un Paese che non sembra affatto interessato a punire gli uomini colpevoli. “We will stop femicide” è il nome del movimento cui presta il suo lavoro. Sta lottando non solo perché può capitare a lei, ma perché può capitare a chiunque.
Attenzione però: le vicende narrate dal film “Dying to divorce” non sono affatto lontane da noi, non appartengono ad un mondo diverso, a persone diverse, meno “civilizzate” (ammesso che oggi si possa ancora utilizzare tale definizione). Ed è proprio questo il pregio maggiore del film: denunciando quanto accade a qualche migliaia di chilometri da noi, apre gli occhi sulla pervasività della violenza maschile in ogni contesto, in ogni luogo, in ogni tempo. La frase che prova questo, che prova cioè che l’avvocata Impek Bouzkurt svolgerebbe la sua professione allo stesso modo in Italia senza faticare meno, senza vedere meno ingiustizie, è questa: “La giustizia muore con lo sconto di pena per femminicidio”. Quante tempeste emotive, quanti raptus, quanti discontrolli episodici vengono utilizzati anche in Italia per attenuare la responsabilità degli uomini che uccidono le loro compagne o ex? Non serve andare in Turchia per vederlo.
Una donna racconta che, in risposta alla sua richiesta di divorziare, suo marito ha deciso di spararle alle gambe e alle braccia, per farla strisciare. Questo era il suo scopo: farla strisciare, rimetterla ai suoi piedi, perché - come dichiara lui stesso - lei aveva ferito il suo orgoglio e il suo onore. Lei l’ha implorato dopo essere stata già colpita alle gambe: “Non spararmi alle braccia, perché non potrei più prendermi cura dei bambini!”. Ha sei figli questa donna. Lui l’ha colpita ugualmente, privandola così dell’uso di tutti gli arti. “Ma io non striscerò” ribatte lei, “Mi rialzerò in piedi e lo affronterò. Tutte dovrebbero farlo”.
È molto difficile essere donna in Turchia, afferma una donna nel documentario, perché sei sempre sotto il controllo di un uomo, tuo padre, tuo marito, o lo Stato. La Turchia registra il numero più alto di violenze domestiche tra i paesi sviluppati; senza ovviamente contare la parte dell’iceberg che rimane sempre sconosciuta. Le donne vengono punite perché hanno voluto cambiare vita, perché hanno voluto divorziare. Perché le donne devono obbedire al ruolo che la natura ha assegnato loro: essere madri. È il presidente turco a dirlo: “Non possiamo mettere uomini e donne sullo stesso piano, è contro natura”. Di conseguenza non stupisce che si releghi una donna che ha raggiunto l’apice della politica europea su un divano, mentre gli uomini – cui la natura ha assegnato il ruolo di politici e condottieri – discutono separatamente tra loro il destino del mondo. Emblematica è l’affermazione che si ascolta nel documentario secondo cui le “donne sono incoraggiate a sbagliare in nome dei loro diritti”: è la consapevolezza del nostro diritto di libertà, del nostro diritto a vivere nel modo in cui vogliamo ad indurre noi donne ad allontanarci da quel ruolo impostoci da millenni di patriarcato. Di questo hanno paura gli uomini: dei nostri diritti, della nostra libertà. Hanno paura che tolga a loro qualcosa. La violenza maschile è agita là dove ci sono donne che vogliono fare scelte personali, e questo accade ovunque nel mondo. “La mia paura più grande è di non poter fare ciò che voglio perché donna”. Se le donne fossero libere rivoluzionerebbero il mondo, recita lo slogan di una manifestazione dell’8 marzo 2019.
Ma ancora attenzione a dire che la realtà turca è lontana dalla nostra, perché è di pochi anni fa l’affermazione di un politico italiano che invitava la sua avversaria ad abbandonare la corsa politica alla carica di sindaco perché incinta, suggerendole di dedicarsi alle gioie della maternità. Non serve andare in Turchia per incontrare questi millenari stereotipi.
Certo è vero, in Turchia stiamo assistendo ad un progressiva erosione dei più elementari principi di libertà e democrazia. La condizione delle donne precipita di continuo, da ultimo con il ritiro dello stato turco dalla Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, che – perfida ironia – è nota proprio come Convenzione di Istanbul poiché firmata in quella città. La situazione è drammatica, ma non ferma avvocate e attiviste come Impek Bouzkurt. “Siamo arrabbiate, non tristi!”
Kübra è una giovane giornalista di Bloomberg, una donna di cultura, quindi, realizzata professionalmente, una donna libera che ha vissuto per anni a Londra; decide di tornare in Turchia, di sposarsi, di avere una figlia con l’uomo che ama. Quell’uomo, due giorni dopo il parto, la colpisce più volte alla testa, provocandole un’emorragia cerebrale che rende Kübra incapace di muoversi autonomamente e che le rende estremamente difficile parlare. Non ancora soddisfatto, le impedisce di vedere sua figlia per anni, mentre la famiglia di Kübra continua a riempire la stanza con giocattoli che forse la bambina non utilizzerà mai. La perizia depositata dalla difesa del marito di Kübra sostiene che l’emorragia cerebrale potrebbe essere stata causata da complicazioni derivanti dal parto cesareo, e non da un’aggressione esterna. Kübra, con enorme impegno e forza di volontà, riesce a migliorare abbastanza la propria capacità di parlare per presenziare in tribunale e fare la propria dichiarazione, in cui lucidamente e chiaramente afferma che è stato suo marito a colpirla quattro volte. È la parola di lei contro quella di lui. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Non c’è certo bisogno di andare in Turchia per sentirla. Il marito di Kübra viene infine condannato a 15 mesi di reclusione per violenza privata, che non sconterà mai. Ma almeno una vittoria Kübra la ottiene: dopo sette anni dall’aggressione sua figlia torna a vivere con lei. “Adoro la sua voce” dice.
Tutte le donne indipendenti possono trovare qualcosa in comune con Kübra.
“Continueremo a lottare finché non smetteranno di ucciderci”.
DYING TO DIVORCE, di Chloë Fairweather, Regno Unito-Norvegia-Germania-Turchia, 2021, 82’
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