Palestina - Nel villaggio beduino Jahalin di Al Akmar un progetto con materiale riciclato rischia di essere demolito per far posto alla statale Gerusalemme-Gerico o all’ennesima espansione delle colonie
Antonelli Barbara Lunedi, 18/01/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2010
Quella dei beduini in Palestina è una storia fatta di espulsioni, demolizioni e confische di terre e proprietà. Forzatamente allontanati dalle loro case tradizionali nell’area del Neghev, tre quarti di loro sono diventati profughi nel 1948, come migliaia di palestinesi, in seguito alla creazione dello Stato di Israele, per poi spostarsi in diverse aree della West Bank. All’inizio degli anni 50 solo 11.000 beduini delle 7 tribù nomadi rimanevano infatti nel Neghev e fino al 1952 Israele non ha mai rilasciato loro alcun tipo di documento identificativo. Circa il 20% dei beduini non è nemmeno registrato nella voce “rifugiato”, di fatto sulla carta è come se non esistessero.
Ai beduini che si sono spostati in West Bank non è andata meglio: hanno subito ripetuti spostamenti e, non essendo concentrati in grandi agglomerati urbani come i palestinesi, gli accordi di Oslo li hanno segregati nella cosidetta Area C (1), quindi sotto il controllo amministrativo e militare di Israele e in aree dove l’espansione delle colonie è andata avanti a ritmi vertiginosi. Da sempre costituiscono un gruppo distinto dalla società palestinese, quasi sempre marginalizzato e privato di diritti.
La comunità beduina Jahalin, diventata principalmente stanziale, vive a sud-est di Gerusalemme, sulla strada che collega la città “santa” e Gerico. Niente luce, né acqua, nessuna infrastruttura, niente servizi di assistenza. Molti di loro lavorano nelle cave di pietra della zona o nelle colonie Israeliane. Vivono in baracche di lamiera, freddissime di inverno e caldissime d’estate, dato che in Area C il governo Israeliano consente la costruzione solo di strutture temporanee, senza fondamenta, e vieta l’uso di cemento o altri materiali da costruzione.
Negli ultimi mesi la comunità Jahalin del villaggio di Al Akmar è finita sotto i riflettori dei grandi media; CNN, Al Jazeera, BBC, diverse testate della stampa israeliana, e anche Rai Tre, hanno parlato del miracolo della scuola fatta di gomme. Quattro aule di 50-60 metri quadri ognuna e una segreteria-ufficio, tutte costruite con pneumatici posizionati a file sfalsate come i mattoni, riempiti di terriccio e argilla e con una copertura sul tetto in lamiera sandwich coibentata. Il progetto è stato gestito e realizzato dalla Onlus milanese Vento di Terra, in collaborazione con il Jerusalem Beduins Cooperative Committee di Anata (Gerusalemme Est). Un giovane gruppo di ingegneri e dottorandi con il supporto dell’Università di Pavia, a partire dall’analisi dei limiti del territorio (clima desertico e impossibilità dell’uso di materiali da costruzione) ha ideato questo progetto innovativo e poco costoso.
Valerio Marazzi, uno degli architetti che a luglio ha coordinato i 10 beduini e i volontari internazionali venuti a dare una mano nella costruzione, racconta “Quando siamo arrivati in questo posto, abbiamo visto che c’era argilla e tanti rifiuti. Abbiamo allora deciso di utilizzare il materiale locale e abbiamo pensato di riciclare uno dei materiali più difficili da riutilizzare, i copertoni appunto. La gomma delle automobili ha infatti una resistenza enorme, mantiene la temperatura interna ed esterna”. Costo totale della scuola, 25.000 euro, grazie alle risorse donate da tre comuni dell’hinterland milanese, dalla CEI (conferenza Episcopale Italiana), dalle suore comboniane e di tanto fundraising.
Dietro al progetto c’è la passione e l’impegno di una donna palestinese, Inam, coordinatrice educativa del progetto di Vento di Terra nel campo profughi di Shu’fat. Inam ha origini beduine; è stata lei a chiedere alla Onlus italiana di visitare alcune comunità vicino ad Anata, ad ascoltarne i bisogni. Donne anche le quattro insegnanti inviate dal Ministero dell’Educazione dell’Autorità Palestinese, che ad agosto ha ufficialmente riconosciuto la scuola per poi inaugurarla lo scorso 19 settembre.
“La costruzione di una scuola in questa area viene incontro soprattutto alle esigenze di mandare a scuola i bambini della comunità Jahalin, prima costretti ad andare anche a piedi a scuola, a oltre 15 km a piedi da qui. Su una strada dove le automobile sfrecciano”, racconta Inam. “Diversi bambini - prosegue Inam - sono stati investiti e tre di loro sono morti negli ultimi anni, per questo la scuola è stata accolta con grande entusismo dalla comunità locale. Ovviamente i genitori hanno avuto bisogno di tempo per acquisire fiducia nella scuola, avevano paura che qui non si insegnasse bene. All’inizio avevamo 37 bambini, dai 6 ai 9 anni, ma il numero è arrivato a 48”. Anche le insegnanti erano all’inizio reticenti, a conferma appunto della separazione che esiste tra la società palestinese e le comunità beduine. Del resto come pensare di spostare il proprio figlio da una scuola sicura ad Abu Dis, Anata o Gerico - anche se lontana - in una scuola che è sotto ordine di demolizione? Nonostante l’attenzione mediatica infatti, ad agosto è arrivato l’ordine da parte delle autorità israeliane dell’immediato stop ai lavori e di demolizione degli edifici costruiti con le gomme. Solo due mesi dopo che la scuola era già stata costruita si è venuto a sapere che secondo la legge Israeliana nessun edificio deve essere costruito a meno di 75 metri dalla strada statale.
Due diversi procedimenti legali sono stati aperti contro la scuola. Da una parte la richiesta presentata dai coloni della vicina Kfar Adumin (colonia illegale secondo il diritto internazionale e le risoluzioni ONU, nda) all’Alta Corte di Giustizia per la demolizione della scuola, perchè costruita senza permesso. Dall’altra un’ulteriore mozione presentata da un’impresa israeliana, Maat, che chiede la demolizione dell’edificio e il suo spostamento dall’altra parte della statale Gerusalemme-Gerico, di cui è previsto un ampliamento. L’avvocato israeliano Schlomo Leaker che segue la vicenda ha ottenuto l’unificazione dei due procedimenti pendenti e lo scorso 9 novembre la Corte Suprema Israeliana si è riunita per deliberare in merito, decidendo di stabilire un tavolo di trattative per trovare una soluzione entro 45 giorni.
“Sapevamo dall’inizio che secondo la legge israeliana è vietato costruire in Area C - spiega Dario Franchetti di Vento di Terra - ma abbiamo sostenuto il progetto, in accordo con i beduini, anche per dare un segnale politico e riaffermare il diritto allo studio dei bambini della comunità Jahalin. Nessuno di noi si aspetta un riconoscimento ufficiale dell’edificio da parte delle autorità israeliane, ma speriamo di arrivare a una situazione in cui la presenza della scuola sia almeno tollerata”.
Del resto tutte le baracche di lamiera sono sotto ordine di demolizione, dato che l’intento delle autorità, sotto pressione dei coloni, è quello di spostare tutte le comunità Jahalin al di là della vallata. La visibilità ha finora protetto la scuola da un’immediata demolizione. Ma non vi è purtroppo alcuna certezza che i bambini arrivino alla fine dell’anno scolastico.
(1) Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno definito l’assetto attuale della West Bank, dividendola in tre aree. Area A (soprattutto città palestinesi e alcune aree rurali) di cui l’Autorità Palestinese è responsabile dal punto di vista amministrativo e della sicurezza. Area B, soprattutto costituita da aree rurali, con controllo suddiviso tra AP e Israele; e l’Area C (pur essendo territorio palestinese, comprende tutte le colonie e le strade a uso esclusivo dei coloni) sotto pieno controllo di Israele.
SHASHAT, schermi al femminile in Palestina
Shashat in arabo significa “schermi”. Ma Shashat è anche una ONG palestinese con sede a Ramallah (Cisgiordania), il cui principale obiettivo è la promozione del cinema al femminile. Fondata nel 2005, con registe e esperte di cinema ma anche registi uomini, lavora in collaborazione con istituzioni sull’intero territorio palestinese, soprattutto dove la vita culturale presenta aspetti di debolezza o discontinuità.
Le attività di Shashat si centrano sull’analisi delle implicazioni culturali legate alle immagini usate per rappresentare le donne o per autorappresentarsi e l’accesso delle donne alla produzione culturale, cinematografica in primis. Da 5 anni organizza e promuove l’unico festival di cinema al femminile in tutto il mondo arabo. Nella edizione di quest’anno i film in programma hanno fatto il tour di tutta la Palestina, con proiezioni anche all’interno dei campi profughi, conferenze pubbliche, dibattiti e iniziative nelle scuole. Tra i temi chiave: Gerusalemme, capitale della cultura araba nel 2009; la storia del cinema in Palestina dagli albori a oggi; il legame tra donne e conflitti. Nella sezione Gerusalemme, che ha aperto il festival, 8 giovanissime palestinesi si sono cimentate nella regia di cortometraggi, raccolti sotto un unico titolo “Jerusalem… So near… So far” (Gerusalemme così vicino così lontano), 43 minuti in cui ogni singolo video contiene una storia, un’emozione, una riflessione legata a Gerusalemme, al suo accesso negato a molti palestinesi, ma anche ad alcuni aspetti culturali della vita a Gerusalemme Est, sicuramente diversa dalla vista di altre città della West Bank.
A partire dalla seconda Intifada c’è stata un’ondata nella produzione filmica al femminile; se da una parte l’occupazione militare (con tutte le sue conseguenze) e la maggiore restrizione dei movimenti imposta da Israele ai palestinesi a partire dal 2000 hanno frammentato la produzione artistica, d’altra parte l’hanno anche resa estremamente prolifica e il festival di Shashat ne è la riprova.
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